
Un giovane su tre ha paura di fare figli per mancanza di una rete di servizi di supporto
In Italia quasi un giovane su tre ha paura di avere un figlio per via della mancanza di una rete di supporto pubblica o privata. A dirlo è una ricerca realizzata nell’ambito dell’Osservatorio sulla crisi demografica della Fondazione Magna Carta. Per realizzarla è stato preso un campione di 1.072 persone, suddivise tra giovani tra i 17 e i 28 anni e adulti over 29. A questi si aggiungono esponenti di alcune categorie specifiche e cioè 400 insegnanti, 60 operatori sanitari e 70 psicologi. Come spiega la direttrice dell’Osservatorio Fmc, Annamaria Parente, l’obiettivo della ricerca è «indagare le cause profonde della denatalità. Oggi chiediamo come stia cambiando il lavoro e come si trasformano le aspettative dei giovani. I dati ci dicono che tra gli under 35 è soddisfatto solo chi lavora in contesti attenti alla famiglia e con orari flessibili». E’ partendo da questo spunto che è nata la giornata organizzata dalla Fondazione con Asstel nello spazio The Dome del campus della Luiss Guido Carli a Roma che è stata intitolata, “Cambiano i giovani, cambia il lavoro: un patto intergenerazionale”, a cui hanno partecipato, tra gli altri, la Ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Roccella, Gaetano Quagliariello, Presidente della Fondazione Magna Carta, Massimo Sarmi, Presidente di Asstel, Annamaria Parente e Gian Carlo Blangiardo, rispettivamente Direttrice e Coordinatore scientifico dell’Osservatorio.
La mancanza di servizi a supporto della genitorialità
Tra i nodi emersi dalla ricerca di Magna Carta c’è il gap tra politiche aziendali e bisogni dei lavoratori, in particolare di quelli più giovani. Due terzi delle imprese italiane intervistate, infatti, non hanno strumenti strutturati di ascolto legati all’organizzazione del lavoro, e solo una minoranza ha integrato il benessere dei dipendenti nella propria strategia delle risorse umane. A causare il rinvio, e spesso anche la rinuncia alla genitorialità sono le difficoltà a conciliare vita privata e lavoro che secondo il campione intervistato, ha un punteggio di 9 su 10. Il tempo appare la risorsa chiave per chi vuole costruire una famiglia e la sua assenza o l’assenza di servizi rendono difficile anche solo pensare a un figlio. Proprio per questo il welfare aziendale dovrebbe partire da qui e cioè dall’offerta di più tempo alle nuove generazioni.
Gli strumenti di welfare più apprezzati
Una parte dello studio è dedicata al ruolo che i sistemi di welfare aziendale possono avere. Lo studio è stato realizzato in collaborazione con Jointly, Engineering, Wellmakers by Bnp Paribas e Prysmian che rappresentano 30mila lavoratori e hanno 900 sedi operative in Italia, oltre ad altre 6 grandi aziende della distribuzione alimentare, della cosmesi e dell’abbigliamento. Per capire le misure più apprezzate dai lavoratori sul tema della genitorialità, sono state raccontate alcune buone pratiche aziendali nel corso di una tavola rotonda a cui hanno partecipato Laura Di Raimondo, Direttore Asstel, Gian Luca Orefice, Chief People, Culture & Transformation Officer Ferrovie dello Stato Italiane, Antonio Liotti, Chief People & Organisation Officer Leonardo, Anna Zattoni, Presidente e Co-founder Jointly, e Stefano Colasanti, Head of WellMakers by BNP Paribas. Più in generale la ricerca evidenzia che tra gli strumenti più apprezzati dai lavoratori ci sono il lavoro ibrido che due terzi delle aziende valutano 8,5 in una scala da 0 a 10 in termini di efficacia, le politiche di conciliazione legate soprattutto alla flessibilità oraria: tra queste per un terzo delle imprese il part time riceve il punteggio di 9 su 10 e per la stessa quota la flessibilità oraria 7,5 su 10. Molto apprezzate sono anche le piattaforme di welfare aziendale, i servizi a favore della genitorialità, i congedi e gli incentivi economici e il gender pay gap.
Le politiche di sostegno necessarie
Per la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità, Eugenia Roccella, i dati «ci dicono che la denatalità non è una malattia italiana ma una vera e propria pandemia, che investe tutta l’Europa e tante aree del mondo, e che riguarda soprattutto i Paesi con un maggiore sviluppo. Diagnosi basate solo sui fattori economici sarebbero dunque sbagliate e fuorvianti. La leva economica è importante, e il nostro governo sta investendo molto sulla famiglia e la natalità. Ma lo è altrettanto comprendere che ci sono fattori culturali da scardinare in modo nuovo: non certo tornando indietro dalla strada dello sviluppo, ma promuovendo un nuovo approccio alla genitorialità, a cominciare dalla conciliazione e dal riconoscimento del valore sociale della maternità». Se il welfare aziendale può molto, sicuramente non può tutto, serve una collaborazione tra pubblico e privato. Ciò che sembra più urgente, perlomeno rispetto agli obiettivi di questa ricerca, è riuscire a combinare in modo produttivo le politiche pubbliche con programmi di welfare aziendale più estesi e innovativi, incentrati non solo su benefici di tipo economico ma su una idea più ampia di benessere della persona. La prima proposta avanzata al decisore politico dalla Fondazione Magna Carta insieme alle aziende partner è di valorizzare l’esperienza dei cosiddetti “asili nido diffusi” o “di prossimità”, un modello che mette in relazione aziende, infrastrutture scolastiche private e territorio, per garantire un servizio di assistenza ai dipendenti con figli piccoli. La proposta dei nidi diffusi potrebbe essere ulteriormente potenziata integrandola con un “voucher baby-sitter” fornito dalle aziende alle famiglie dei dipendenti: un numero di ore prestabilito di baby-sitting, a disposizione dei neogenitori in base alle loro esigenze. L’integrazione del voucher con la innovazione tecnologica potrebbe consentire alle aziende di includere nei pacchetti servizi come il “baby-sitting last minute”, fornendo una soluzione preziosa, tempestiva e “di riserva” quando si è alle prese con emergenze personali o professionali. Una terza proposta è quella di rafforzare iniziative pubblico/private per abbattere parzialmente o totalmente il costo dei centri estivi (fino a 90 giorni) e di stabilizzare le politiche sul congedo parentale. Infine anche il credito d’imposta andrebbe esteso quando le aziende dimostrano di saper programmare gli investimenti incrementali o aggiuntivi espressamente finalizzati al sostegno della conciliazione, della natalità e della genitorialità e sul versante dello smart working. Per la Fondazione appare di fondamentale importanza non smarrire il valore di una cultura dell’orario di lavoro più agile e flessibile, basata sull’alternanza tra presenza e distanza.
Le peculiarità delle telecomunicazioni
Proprio dalle telecomunicazioni arriva un segnale molto positivo sulla materia, dal momento che il 97% delle aziende di tlc applica lo smart working e il 76% adotta modelli di flessibilità oraria. Come spiega di Raimondo si tratta di «un settore di frontiera e la sfida per chi si occupa di risorse umane si gioca su più livelli: formare le persone, preparare le ragazze e i ragazzi che entreranno al lavoro, stimolare le istituzioni a collaborare con le imprese per affrontare le transizioni demografica, digitale e organizzativa». Non possiamo poi dimenticare che «i nativi digitali affrontano un mondo del lavoro sempre più volatile, caratterizzato da modelli organizzativi liquidi e dall’integrazione crescente delle tecnologie intelligenti nei processi produttivi e aziendali – continua Di Raimondo -. Diventa cruciale per le imprese comprendere come questa generazione affronti le transizioni lavorative in un mondo sempre più connesso e come debbano evolversi offrendo soluzioni e contribuendo alle politiche pubbliche che contrastano il calo della natalità in Italia». Per stimolare il processo di trasformazione in corso che riguarda la genitorialità ma anche le competenze, la flessibilità non basta, occorre anche «il rafforzamento e la strutturalità di strumenti come il Contratto di Espansione e il Fondo Nuove Competenze, fondamentali per agevolare i processi di ricambio generazionale e aggiornamento professionale. Inoltre, Asstel auspica un sostegno integrativo al Fondo di Solidarietà Bilaterale per la Filiera TLC, che potrà diventare il fulcro delle politiche attive del settore». Tutto questo perché «in un Paese che invecchia e dove l’accesso dei giovani al lavoro ha ancora troppe barriere, la vera sfida è creare ecosistemi inclusivi, dove le generazioni si rafforzano a vicenda. La complessità del lavoro impone un superamento delle strutture gerarchiche tradizionali. Servono modelli agili e trasversali, capaci di facilitare la cooperazione intergenerazionale e valorizzare tutte le età professionali».
Fonte: Il Sole 24 Ore