
Un saggio sullo sconfinare: il ritorno dei Caroline
I Caroline nascono a Londra verso la fine degli anni Dieci del Duemila, quando tre studenti universitari – Jasper Llewellyn, Mike O’Malley e Casper Hughes – cominciano a suonare insieme con l’idea di mescolare post-rock, folk e minimalismo. Da quei primi esperimenti ha preso forma un collettivo di otto musicisti; un progetto aperto, dove ogni componente ha voce sul processo creativo e in cui l’improvvisazione ha un ruolo predominante. Il loro esordio del 2022, intimo e malinconico, li ha subito distinti nel panorama londinese per un approccio meno spavaldo rispetto alla scena del revival postpunk dominante. Con “Caroline 2”, il gruppo compie una svolta significativa. Laddove il primo disco era un’esplorazione lenta, radicata nel folk e nell’estetica “slowcore”, qui la band sceglie di giocare con strutture più pop in una metamorfosi controllata, stratificata, che rende l’album accessibile e complesso allo stesso tempo.
La genesi di un’opera coraggiosa
La nascita di “Caroline 2” è una storia di luoghi, voci e intenzioni. A differenza del primo album, che raccoglieva brani nati in periodi diversi, questo secondo lavoro nasce da un processo più circostanziato e condiviso. Ogni canzone è frutto di una scrittura comunitaria e artigianale, dove l’errore diventa parte integrante del risultato. Il brano simbolo di questo approccio è “Coldplay Cover”, registrato in due stanze separate, con metà del gruppo che suonava un brano mentre un altro era interpretato dai restanti membri: il microfono si sposta da una stanza all’altra, ma il risultato, seppur inizialmente straniante, è misteriosamente coerente. Altri episodi sono stati registrati in luoghi insoliti, come cimiteri londinesi, dove le voci si intrecciano col vento e rumori di fondo. Tutto questo rende “Caroline 2” un archivio di esperienze condivise, una testimonianza sonora di ciò che significa fare musica senza fissare confini.
Un lavoro di sperimentazione minimale
L’apertura con “Total Euphoria” è un inno anomalo, dove ogni strumento sembra suonare in un tempo differente, creando un effetto ipnotico che culmina in un climax emotivo tanto sottile quanto devastante. “Tell Me I Never Knew That”, con la partecipazione di Caroline Polachek, fonde folk-pop e autotune in una ballata su cui i riflette una lucente malinconia. “Song Twoì” alterna archi affilati come rasoi a momenti di calore inatteso, mentre “U R Ur Only Aching” è una sequenza in continua mutazione, che passa da un duetto acustico a un’esplosione cantilenante. Il punto più intenso arriva con “Two Riders Down”, in cui disperazione, caos onoro e voci spezzate vengono fagocitati dalla potenza del finale. L’album si chiude con “Beautiful Ending”, un epilogo che sembra fluttuare in uno spazio fuori dal tempo, in una sospensione di sorprendente quiete.
I Caroline esaltano i contrasti, trovano nella cacofonia frammenti di consonanze. Se, come loro stessi hanno affermato, questo secondo album «è una dichiarazione», in questi tre anni l’ensemble britannico ha dimostrato che la fuori c’è tanta musica lontana dai cliché e da fenomeni stagionali. Dobbiamo solo andarla a cercare.
Fonte: Il Sole 24 Ore