
Un viaggio interiore nelle mostruosità quotidiane
Monica Pareschi, traduttrice, fra gli altri, di Charlotte e Emily Brontë, Willa Chater, Doris Lessing, Christopher Isherwood, Thomas Hardy, è tornata alla narrativa dopo dieci anni dal suo esordio con Inverness (Polidoro, pagg. 178, euro 15) ora in finale al premio Campiello
Ci può descrivere questo libro?
Inverness è una raccolta di racconti che si propone di esplorare quei sentimenti scomodi, a volte meschini e persino morbosi che formano lo schema nascosto delle nostre vite. Che si tratti di desideri inconfessabili persino a noi stessi, paure umilianti o aspirazioni vergognose, esiste una trama del non detto che si intreccia all’ordito che forma il tessuto profondo della storia di ciascun personaggio di queste storie, e il cui rovescio solitamente occultato si rivela per caso, o anche per errore, illuminato da sprazzi di coscienza innescati da quel momento decisivo che è l’incontro con l’altro. Oltre a essere un luogo fisico, Inverness è anche un viaggio interiore attraverso le piccole mostruosità quotidiane che dicono di noi qualcosa di profondamente diverso dall’immagine socialmente accettabile che cerchiamo di proiettare all’esterno, dicono del male che ci abita e che ci rende così terribilmente umani.
Perché ha sentito il bisogno di raccontare questa storia?
Sono una traduttrice letteraria, e ho passato molti anni della mia vita a dar voce alla scrittura altrui, praticando cioè quella forma particolare di scrittura che consiste nel riscrivere nella propria lingua i libri che nascono in un idioma e in una cultura diversi. Questo comporta sia un’ovvia capacità mimetica sia una meno ovvia ma imprescindibile competenza autoriale. Diciamo che in questo percorso può accadere di sentire la necessità di esplorare la scrittura in prima persona. A un certo punto, non senza titubanze e ambivalenze, ho deciso di ascoltare questo desiderio, di mettermi alla prova come scrittrice tout court, senza mediazioni.
Fonte: Il Sole 24 Ore