
«Una maggiore visibilità su dazi e prezzi spinge i farmaceutici in Borsa »
L’accordo di Pfizer con l’amministrazione Usa sui prezzi, la quotazione di Astrazeneca a Wall Street, il disimpegno da investimenti in Uk del settore farmaceutico e d’altro canto gli impegni di investimenti in Usa, gli accordi transfrontalieri di licenza delle biotech cinesi, le operazioni di M&A. Il comparto pharma ha riservato nell’ultimo anno una vivacità spiccata rispetto al passato e sta cercando un nuovo assetto con equilibri in via di definizione, soprattutto a livello geografico. A cominciare dagli investimenti non solo in ricerca e sviluppo, ma anche in produzione: «Nel complesso abbiamo già assistito ad annunci per oltre 400 miliardi di dollari da parte delle big pharma negli Stati Uniti. L’introduzione di dazi su diversi settori strategici, con l’obiettivo di favorire il “made in America” e riportare la manifattura sul territorio nazionale, nel settore farmaceutico ha funzionato in modo particolare, perché gli Usa rappresentano il mercato più redditizio al mondo, dove i prezzi — soprattutto dei farmaci di marca — sono più alti che altrove» osserva Stephen Farrelly, responsabile globale del settore pharma e healthcare della divisione investment banking di ING. Ne è un esempio concreto l’avvio da parte i Astrazeneca in questi giorni della costruzione di un nuovo impianto per ingredienti farmaceutici attivi (API) a Charlottesville, in Virginia, con un’operazione finanziaria di 4,5 miliardi di dollari. Un’iniziativa che sarà seguita da molte altre, sia di gruppi americani sia di gruppi europei.
Gli accordi con l’amministrazione Trump
L’altra partita delle big pharma negli States è rappresentata dalla questione dei prezzi: il primo accordo con l’amministrazione in questo senso è stato siglato da Pfizer seguito poi da quello con Astrazeneca: «L’accordo introduce una sorta di “most-favored nation pricing”, ma con una novità rilevante: la creazione di un canale diretto al consumatore (il sito web TRumpRx, ndr), attraverso cui gli americani potranno acquistare i farmaci direttamente dalle aziende farmaceutiche. Le imprese del settore hanno sempre sottolineato che circa il 50% di quanto speso per un farmaco nel Paese non arriva a loro, ma va ad altri attori della filiera. In pratica, se vendono i propri farmaci direttamente ai consumatori con uno sconto del 50%, mantengono comunque invariati i margini» osserva Farrelly, che spiega: «Se i farmaci non saranno più venduti attraverso i canali tradizionali, come le catene di farmacie, aziende come Walgreens Boots Alliance perderanno ricavi e margini. Questo accordo salva le farmaceutiche, ma penalizza i rivenditori». Da Ing, però, fanno anche osservare che se l’amministrazione concludesse un accordo simile con tutti i produttori di farmaci di marca, ciò potrebbe generare un potenziale risparmio sui costi di 1,9 miliardi di dollari per gli americani non assicurati (tenendo conto che attualmente sono l’8% e potrebbero salire al 10-12% grazie all’“One Big Beautiful Bill”, quindi a circa 30 milioni di americani). Un risparmio irrisorio, tutto per altro a scapito degli intermediari, se si tiene conto che rispetto a un mercato farmaceutico statunitense di 590 miliardi di dollari.
La partita dei farmaci generici
Tutt’altro discorso riguarda poi i farmaci generici: «I dazi su India e Cina — dove si concentra la catena di fornitura dei generici — faranno aumentare i prezzi dei farmaci non di marca. Quindi i risparmi provenienti dagli accordi con le big pharma verranno compensati dal rincaro di prezzo dei medicinali non di marca. Riteniamo che i dazi su India e Cina resteranno elevati a lungo, e che non ci saranno accordi analoghi a quello di Pfizer per il settore dei generici» sottolinea Farrelly.
Le partnership con le biotech cinesi
All’Asia per altro il settore farmaceutico sta guardando per l’innovazione delle cure con accordi di licenza sempre più frequenti: «Nel 2014 solo il 4% delle nuove molecole in sviluppo nel mondo proveniva dalla Cina; nel 2024 la quota è salita al 27%. È un cambiamento enorme. Oggi la Cina non è più solo un luogo di produzione a basso costo, ma un polo di innovazione biotecnologica. Il governo cinese ha liberalizzato alcune regole sugli investimenti, favorendo partnership con le aziende americane. Alcuni osservatori prevedono addirittura che “la prossima Pfizer” potrebbe essere cinese» sottolinea Farrelly, proseguendo poi: «Storicamente, i poli principali di ricerca erano Cambridge (Massachusetts), San Francisco, San Diego, e in Europa Oxford e Cambridge. Oggi la Cina sta diventando un nuovo “hub” di innovazione. Le grandi aziende farmaceutiche americane, non potendo acquisire direttamente società cinesi a causa delle restrizioni sugli investimenti, stipulano accordi di licensing per accedere ai nuovi farmaci in sviluppo».
L’Europa va a rilento
Gli investimenti in Usa e Cina rischiano di chiudere in una morsa le società europee. «L’Europa – continua l’esperto di Ing – conserva ancora un’eccellente competenza in biotech e università di altissimo livello, ma rischia di trovarsi in mezzo, schiacciata tra Stati Uniti e Cina. Servirebbe una strategia europea più coordinata, capace di attrarre investimenti e mantenere capacità produttiva e di ricerca nel continente. A questo proposito, alcune aziende svizzere hanno pubblicato una lettera aperta sul Financial Times per chiedere all’Unione Europea di rivedere la politica dei prezzi, sostenendo che l’Europa non può continuare a sottoinvestire in pharma e lasciarsi superare da Stati Uniti e Cina».
Fonte: Il Sole 24 Ore