Ungheria, no alla consegna dell’imputato se c’è il rischio di violazioni dei diritti

Ungheria, no alla consegna dell’imputato se c’è il rischio di violazioni dei diritti

Considerata l’esistenza di sistematiche carenze del sistema penitenziario ungherese, l’imputato, richiesto nell’ambito di un mandato di arresto europeo, non può essere consegnato solo sulla base di generiche informazioni. La Corte di cassazione, con la sentenza 33397/2025, ha così accolto il ricorso di un cittadino pakistano, condannato per il reato di aiuto all’immigrazione clandestina e falso.

L’imputato aveva trascorso in un carcere ungherese sette mesi in carcerazione preventiva, nel corso della qualeaveva sostenuto di essere stato torturato. Era poi riuscito a “uscire” verso la Grecia per raggiungere l’Italia, dove si era presentato spontaneamente alla questura di Bologna per iniziare la procedura di asilo, prima di essere arrestato in esecuzione dell’euromandato.

L’incertezza sulla pena

La Suprema corte ha annullato, con rinvio, il via libera all’estradizione, disposto dalla Corte d’Appello, malgrado le indicazioni delle autorità ungheresi fossero limitate al carcere in cui il ricorrente avrebbe espiato la pena. Pena, tra l’altro, sulla quale non c’era certezza in merito alla durata: due anni secondo il condannato, a fronte del tetto di dodici indicato nel Mae. Sul punto la Cassazione ricorda che uno “scollamento” sui tempi è possibile solo in caso di mandato di arresto europeo processuale, ma non per il mandato esecutivo, per il quale è necessaria la specifica indicazione dell’entità della pena.

Le carenze evidenziate dalla Cedu

I giudici di legittimità censurano la decisione della Corte d’Appello, adottata nonostante le riscontrate carenze del sistema penitenziario ungherese, evidenziate non solo dal consegnando, ma anche dal report del 2024 della Hungarian Helsinki Committe, tradotto in italiano da Antigone. Un quadro in linea con le violazioni rilevate dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo con la sentenza pilota Varga e altri contro l’Ungheria. «La Corte territoriale, pur dando atto nella sua richiesta di informazioni delle condizioni psicologiche del ricorrente conseguite alla precedente carcerazione patita presso le carceri ungheresi – si legge nella sentenza – si è limitata a reputare sufficienti le informazioni fornite dalla Autorità penitenziaria ungherese, benché queste riguardino esclusivamente il trattamento detentivo applicato nell’istituto penitenziario di Szombathely». Per i giudici di legittimità, la Corte territoriale non aveva elementi per escludere il rischio di trattamenti disumani o degradanti.

Fonte: Il Sole 24 Ore