
Venezia 2025: mostri alla mostra, ma non capolavori
Un effetto magico della Mostra del cinema di Venezia è la fila – quest’anno più folta degli anni precedenti – in lotta per entrare dentro un cinema, quando nel resto dell’anno, in Italia almeno, bisogna ingegnarsi per buttare dentro gli spettatori. Il cinema è, dunque, ancora vivo, anche qualora fosse solo un mezzo per partecipare a un evento, per guardare un film accanto a un regista o a un cast, o per respirare un poco di polvere di stelle. È vivo se una mandria di cinefili si lascia sferzare inamovibile dalla pioggia e dal vento, col rischio di essere fulminata, per vedere un film (perdibile) con Julia Roberts. È vivo, visto che la Biennale ha voluto iniziare con un film, La grazia, che promuove la legge sull’eutanasia ancora negletta dalla politica italiana. Ed è vivo, dato che il corteo pro Palestina ha deciso di sfilare qui ieri – e non a Roma o Milano – e usare la vetrina mediatica per urlare la parola genocidio. In un contesto politicamente significativo, ha difettato, però – almeno in questa prima parte del concorso e del fuori concorso –, l’urgenza della sperimentazione cinematografica.
«La grazia» di Paolo Sorrentino
Il film inaugurale di Paolo Sorrentino (La grazia, appunto) è notevole e gli si augura tutta la fortuna che merita. È un’opera di spessore che unisce la tecnica registica consolidata del premio Oscar – le carrellate e i movimenti di macchina che sono un suo segno distintivo – a una materia di impegno civile. Un servitore dello Stato, un presidente della Repubblica (Toni Servillo), si trova alle prese con i limiti del diritto e di sé, come uomo, su argomenti che tagliano in due il Paese, come quello di decidere sulla domanda di grazia di un condannato o sulla fine della vita. Ovvero il pretendere di essere accompagnati dalla legge quando diventa insopportabile.
«Di chi sono i nostri giorni?»: chiede la figlia del presidente, Dorotea (Anna Ferzetti), al padre, sintetizzando il dilemma etico e giuridico. Bravissima Ferzetti, che fronteggia un Toni Servillo, compos sui nei panni di chi deve mascherarsi dietro un’istituzione anche nelle debolezze private. Poco importa che nella pellicola ci siano momenti barocchi: la tempesta che travolge il presidente della Repubblica portoghese in visita o il papa rasta, di colore, in motoretta; e certe ridondanze metaforiche, come il cavallo morente nelle scuderie del Quirinale.
Questo fa parte della “grazia” sorrentiniana e, come tale, va goduta. Ma niente da dire sulla linea del coraggio di esprimere ben forte un’idea, come aveva fatto ne Il divo, su Andreotti, e nello scomparso da tutti gli schermi Loro, su Berlusconi. Questa forza è condita con un’ottima sceneggiatura (anche nei meno credibili colloqui in carcere), con tratti dal sapore grottesco e comico, nella tradizione della Commedia all’italiana. La figura di Coco, amica del presidente, ha una voce decisa e destinata a rimanere, sia per la recitazione di Milvia Marigliano, che per le battute icastiche che l’attrice inanella mantenendo tempi comici e aplomb. «Questa è un’ipotesi di cena!», esclama guardando il frugale cibo nel piatto. La grazia non è scevra nemmeno da certa dolcezza, con cui riveste la fallacia della nostra scorza umana, la sua inclinazione al risentimento, al dubbio, come vizio, ma anche come dono di riflessione.Sorrentino ha preso posizione, ma stilisticamente non ha fatto una cosa inconsueta.
Bugonia di Yorghos Lanthimos
Così come non l’ha fatta Yorghos Lanthimos in Bugonia, uno sci-fi sulle pazzie cospirazioniste di quella parte di Stati Uniti alla deriva. Lanthimos ci porta nella paranoia di Teddy (Jesse Plemons), uno dei tanti americani lasciati indietro dall’assenza di una politica sociale inclusiva. Teddy, assieme a un cugino con deficit cognitivi (Aidan Delbis), che non intaccano però la sua gentilezza, rapisce Emma Stone, che Teddy considera un’aliena nascosta sotto le vesti della Ceo di una multinazionale. La scrittura è tesissima e la regia sempre all’altezza dei colpi di scena, della violenza farsesca e del grottesco che però ha radici in una realtà di disagio sociale in un’America che non ha remore di affossare i più deboli. A sostegno, c’è la squadra oliatissima degli attori – Stone e Plemons, in primis –, da cui si evince l’affinità nel black humor, della performance professionale sempre ai limiti della perfezione. Il film è buono, riesce a incidere anche se è il remake di una pellicola sudcoreana del 2003, Jigureul jikyeora! di Jang Joon-hwan. Ma non ci sono lo stupore e la magnitudo che avevano scosso la sala del Lido con Povere creature!
Fonte: Il Sole 24 Ore