Vita sessuale dellə groenladesi (e dellə africanə)

Vita sessuale dellə groenladesi (e dellə africanə)

Un’isola circondata dal nulla, un’isola prigione: l’isola della rabbia. La Groenlandia che si vede appena sullo sfondo di Una notte a Nuuk è un luogo claustrofobico dove cinque ragazzə queer si agitano in notti piene di alcol e di sesso, alla ricerca di sé stessə, ancor prima di una persona di cui innamorarsi. Nel romanzo scritto nel 2014 in groenlandese e danese dall’allora ventiquattrenne attivista e scrittrice Niviaq Korneliussen, e ora tradotto in italiano, non c’è traccia dello sconfinato «deserto bianco» descritto dall’antropologo Knud Rasmussen durante le spedizioni di Thule, né dell’immensa miniera portata a cielo aperto dallo scioglimento dei ghiacci per cui smania Donald Trump.

Sono monotone scene di interni, o notturne, dove il mondo esterno viene percepito unicamente attraverso le descrizioni del variare dell’intensità della luce. Solitudini in cui si sente solo l’eco del corteo di spiriti che, secondo i resoconti di Rasmussen, gli Inuit pensavano camminassero dietro ogni essere umano. I fantasmi di tutti i loro omonimi defunti che li appoggiano e li aiutano finché rispettano le regole di vita, ma che si rivoltano loro contro se le violano.

Non compaiono nel libro, dove di quella cultura restano solo i nomi delle persone e dei luoghi, dei quali i protagonisti non conoscono il significato. Tuttavia il loro retaggio pare pesare sulla coscienza dellə cinque ventenni che cercano un loro spazio alla periferia di un impero colpevole di aver cancellato l’antica civiltà che attorno a quei luoghi estremi aveva costruito un senso, e che ancora li colonizza, economicamente e culturalmente. Una generazione stretta tra un’eredità di antenati distrutti dalla fatica e dall’alcol – rimpiazzata dal vuoto di una mentalità acquisita, rigida e patriarcale, dove non c’è posto per chi si sente fuori dal canone – e la prigione dell’autocommiserazione.

«Enough of that post-colonial piece of shit» scrive al suo amico Inuk, di cui ha tradito la fiducia, Arnaq, che agli abusi subiti da bambina contrappone uno sfrenato cinismo, e pare riecheggiare lo scrittore congolese Alain Mabanckou nel suo provocatorio pamphlet Le Sanglot de l’homme noir – il pianto dell’uomo nero (2012) – dove invita gli africani e i loro discendenti a non fondare la loro identità sulla colonizzazione e la tratta, su un passato di umiliazione e sofferenze che impedisce loro di proiettarsi nel futuro.

Il male di vivere delle vittime. «Karma is a bitch», aggiunge Arnaq, in un globish che si nutre di hashtag e frasi di canzoni. «Dov’è casa mia? Non ce l’ho» si risponde Inuk che se n’è andato dall’odiata isola, ma che rifiuta ancora la sua omosessualità. «La vita ha trionfato su di me. (…) La vita mi ha ucciso». Anche altrove non si sente a casa, casa pare essere solo la morte.

Fonte: Il Sole 24 Ore