Wall Street, i tre talloni di Achille di un listino che sembra senza freni
Detta in altre parole: per un crollo non servono notizie negative, ma bastano notizie meno positive del previsto. Anche perché le speranze sull’Ia sono a loro volta connesse a investimenti di dimensioni gigantesche. Tante aziende per sostenere questa super-spesa si stanno indebitando: giovedì Meta ha emesso un bond da 30 miliardi di dollari proprio per finanziare gli investimenti in Ia, Oracle aveva fatto lo stesso per 18 miliardi. Il rischio è che, a fronte di uno sforzo immenso, i ritorni non siano di dimensioni altrettanto grandi. Per ora il mercato pensa positivo (il capo del team economico di Goldman Sachs calcola che l’Ia generativa produrrà un valore economico di 20mila miliardi di dollari, dei quali 8mila solo negli Usa), ma i timori a volte affiorano a Wall Street.
La terza fonte di preoccupazione è infine la circolarità. Per capirlo guardiamo il caso di OpenAi: la società di Sam Altman è stata sovvenzionata dalle big tech per lo sviluppo dei data center, ma contemporaneamente le stesse big tech vendono i microprocessori a OpenAi per far funzionare gli stessi data center. E questi incroci sono ripetuti in tante aziende, anche con finanziamenti e partecipazioni azionarie incrociate. Morale: se soffre una, soffrono tutte.
Questo si collega al secondo tallone di achille di Wall Street: la concentrazione. Ormai l’indice S&P 500 è per il 33% formato da soli 7 titoli: quelli delle big tech. Sette società (con Nvidia che vale 5mila miliardi di dollari) fanno un terzo dell’intero indice. Le big tech, insomma, fanno da sole il bello e il cattivo tempo a Wall Street. Soffrono loro, soffre l’intera Borsa.
Bolla del credito?
C’è poi il terzo tallone d’Achille, emerso quando alcune società legate al settore auto, ai prestiti a leva e a quelli subprime – come First Brands, Cantor e Tricolor – sono finite gambe all’aria. Il mercato ha iniziato a interrogarsi sulla salute del credito di questo settore. Poi i dubbi si sono estesi alle banche regionali, quando First Brands e Western Alliance hanno annunciato alcune gravi perdite su grandi crediti. E alla fine hanno coinvolto anche i fondi di private debt, quelli che erogano prestiti alle imprese in alternativa al credito bancario. Il timore è che il rallentamento dell’economia Usa possa far venire al pettine gli eccessi del credito facile degli anni passati.
Tanti segnali già indicano un certo stress. I default sono bassi, per ora, ma sui crediti subprime per il settore auto (cioè i finanziamenti erogati a persone con redditi bassi) le insolvenze sono salite al 5,93%. Livello vicino ai record storici, sostiene Morgan Stanley. Poi c’è il boom delle ristrutturazioni di crediti erogati da fondi di private debt, attraverso l’escamotage dei cosiddetti ”Pik” (che permettono di pagare gli interessi non in cash): sempre più aziende sono costrette a ristrutturare in questo modo i crediti ottenuti dai fondi di private debt, evitando cioè di pagare gli interessi cash, perché non hanno liquidità. Ebbene: questa tipologia di “bad Pik”, secondo dati di Lincoln International riportati da Bloomberg, ha raggiunto il 6% del totale dal 2% del 2021. Ma i segnali ”strani” che arrivano dal mondo del credito Usa (bancario e non bancario) sono molti di più. Preoccupano? Per ora Wall Street corre. Come faceva Achille piè veloce.
Fonte: Il Sole 24 Ore