
Wimbledon e quel sogno sull’erba chiamato «ball kid»
Jannik Sinner passa lungo uno dei vialetti inconfondibili di Church Road, e una voce gli chiede «che lavoro vorresti fare a Wimbledon?». Lui ci pensa un attimo e risponde «the ball kid», il raccattapalle. È un video che circola in questi giorni, durante il torneo, ma il numero uno del mondo non sa che c’è un libro dedicato proprio a questa esperienza, indimenticabile per un bambino: La grammatica del bianco di Angelo Carotenuto. Un racconto che, prima di tutto, è una dichiarazione d’amore per il tennis e per la competizione più bella del circuito, ineguagliabile per eleganza e prestigio, amata anche da chi predilige la terra rossa, celebrata sin dal titolo per il candore che non ammette altri colori (a parte il verde dell’erba, va da sé). Siamo nella Londra del 1980, lo scenario è quello di una delle finali più epiche della storia del tennis: i cinque set giocati il 5 luglio da Björn Borg e John McEnroe, con il tiebreak leggendario del quarto set (18-16 per John) e la vittoria finale conquistata dallo svedese, che esulta in ginocchio sul centrale come nelle precedenti quattro edizioni. Una rivalità entusiasmante che si sarebbe riproposta negli anni sotto altre spoglie e che oggi ritroviamo – pur in un tennis totalmente diverso, più veloce, muscolare e meno vario – in Sinner-Alcaraz.Ogni capitolo del libro è un set, ogni passaggio di set è inframezzato da un momento di vita di Warren, voce narrante. Un ragazzino di 11 anni, dalla sensibilità particolare, con una madre apprensiva e preoccupata per quel suo modo di essere introverso, lontano dai coetanei che – anzi – lo prendono in giro. Warren in realtà coltiva le sue passioni, ama andare in biblioteca, conosce parole ricercate, e soprattutto gli piace la lingua italiana, forse per via di quel padre che non ha mai conosciuto.Quando si ritrova iscritto al corso di preparazione da raccattapalle a Wimbledon, non è contento: gli sembra una delle solite trovate della madre ansiosa di vederlo socializzare e incurante dei suoi effettivi desideri. Invece quell’esperienza gli cambia la vita: la sua capacità di osservazione – dei dettagli, degli stati d’animo, delle espressioni più nascoste – gli permette di leggere quel che accade in campo. Di immedesimarsi nei giocatori, entrando nei loro pensieri. Di sentirsi vicino anche a mogli e allenatori in tribuna. Il tennis insegna qualcosa anche a chi non gioca: per esempio a non avere rimpianti per un errore, l’imperativo è guardare avanti e pensare al punto successivo; a perdonarti se sbagli, l’errore è contemplato ed è parte del gioco; ad essere coraggiosi, rompendo gli indugi e scendendo a rete a “prendersi” il punto. Sotto i suoi occhi, Borg – soprannominato l’Orso, rigoroso, mai una parola o un gesto fuori posto, perfetto nelle sue traiettorie – e McEnroe – per tutti il Genio e, naturalmente, la sregolatezza – srotolano un copione fatto di talento, resistenza e umanità. Warren sente le loro difficoltà, esulta mentalmente con loro, la tensione di ciascuno di loro è la sua, ne riconosce i tic. Certo, è arrivato preparato da un corso di cinque mesi, ha imparato tutto del tennis, ha ascoltato gli insegnamenti di Damien, l’istruttore dei ball kids, gli risuonano le raccomandazioni di Alison sulla prontezza nei gesti e nel soddisfare le richieste dei giocatori (porgere un asciugamano, oltre che le palline, essere rapidi nei movimenti). Ne parla con Cicca, suo “collega” raccattapalle. Poi arriva quel tiebreak, e la «gente capisce che questo sta diventando un pomeriggio speciale e lo capisco anch’io che ogni punto dura un punto, che c’è sempre modo di rialzarsi e giocarne un altro, che niente è mai finito prima che sia finito per davvero». Quante volte gli amanti del tennis se lo sono ripetuto, l’ultima nella scorsa finale del Roland Garros, quando vedevamo ormai Sinner sollevare la coppa e arrivare a Wimbledon per tentare il colpaccio del Grande Slam… e invece Alcaraz ha annullato, uno dopo l’altro, tre match point, poi ha strappato il servizio, quindi il set…infine la partita. John McEnroe il 5 luglio 1980 vince il tiebreak, si va al quinto e dirà in futuro che quel 18-16 ha segnato il suo percorso più di altri momenti in cui ha vinto un trofeo. Era un altro tennis, e non solo per l’estro di John e per la freddezza implacabile di Björn. C’erano i giudici di linea, con la loro autorevolezza, non esisteva il super tiebreak né c’erano gli articolati team che conosciamo oggi.È sopravvissuto il bianco, e con esso l’anima di Wimbledon, quella sua finezza che pure non è escludente perché lì, nei giorni del torneo, non vi sono solo gli esperti di tennis: è un fenomeno di costume, coinvolgente e trasversale, con regole che tutti osservano. «Ogni colore nella sua unicità esclude gli altri. Il bianco no, il bianco è quel che è. Bianchi sono gli spazi fra le righe dei libri, dove infilo la mia immaginazione. Bianca è la libertà delle nuvole, nel loro moto incessante. Ogni colore contiene un limite. Il bianco no, non vive di interpretazioni. Immaginate un mondo così, un mondo retto dalla grammatica del bianco». Si finisce il libro volendo bene a Warren, facendo il tifo per lui e immaginandolo assestare il break decisivo a tutte le sue insicurezze.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Angelo Carotenuto
La grammatica del bianco. Un’estate a Wimbledon
Sellerio, pagg. 256, € 15
Fonte: Il Sole 24 Ore