Il ministero della Cultura con una circolare si allinea alle indicazioni del Dl n. 69. Il Codice dei beni culturali non blocca la regole iper semplificate del Salva casa
Fonte: Il Sole 24 Ore
L’indagine è per i reati di frode in pubbliche forniture e truffa. Da alcune cronache poteva sembrare che il mantenere in esercizio gli apparecchi potesse costituire il reato di truffa a chi è stato multato, ma in realtà la questione riguarda un rilevatore che, a quanto si legge, potrebbe non essere considerato nemmeno come approvato.
Perché? In sostanza, secondo l’accusa, l’apparecchio ha caratteristiche tecniche che non corrispondono all’approvazione rilasciata. Quindi, la sentenza in sé è ben distante dal sancire alcun principio generale.
Il deposito dei prototipi
Senonché, è noto che in passato il problema della mancata corrispondenza all’approvazione si è posto più volte. Anche quando una componente di apparecchio (per esempio, la fotocamera) veniva sostituita dal produttore perché non più in commercio. O quando si è visto che il prototipo che viene depositato al Mit (come impone l’articolo 192, comma 2 del Regolamento di esecuzione del Codice della strada) manca di parti anche importanti a livello di software.
Nei decenni, il Mit si è dato una linea sulle procedure da seguire, ma l’indagine di Cosenza mostra che non sempre la magistratura la condivide. Di qui il rischio di altre inchieste penali, che si aggiunge all’incertezza di addetti ai lavori e amministratori pubblici sulla “semplice” questione dell’omologazione/approvazione.
L’incertezza
Così rischia di essere vana la circolare 0000995 del 23 gennaio 2025, con cui il ministero dell’Interno ha invitato le amministrazioni a resistere in giudizio contro i ricorsi dei cittadini, con precise motivazioni, basate sostanzialmente sulla quasi identica procedura tra omologazione e approvazione. Posizione che segue quella già consolidata del Mit (circolare 8176/2020), che già nell’oggetto parla di «equivalenza sostanziale tra le procedure di omologazione e quelle di approvazione».
Fonte: Il Sole 24 Ore
Arriva la correzione sugli acconti Irpef per evitare aumenti nei versamenti dei prossimi anticipi di imposta da parte di dipendenti e pensionati. Il ritorno del calcolo con le tre aliquote e non più quattro come prevedevano sia il decreto legislativo sulla nuova Irpef sia le istruzioni al 730/2025 impongono un intervento di cassa di 250 milioni di euro.
Il Governo corre così ai ripari dopo la denuncia della Cgil sul corto circuito creato tra il decreto della delega fiscale che introduceva l’Irpef a tre aliquote solo per il 2024, lasciando invariati gli acconti a quattro aliquote a quattro aliquote per il 2024 e il 2025, e la norma contenuta nell’ultima legge di Bilancio con cui è stata stabilizzata la riforma Irpef sempre a tre aliquote anche dal 2025 in poi. Una distorsione che, se non modificata dal Governo, avrebbe comportato per i contribuenti un anticipo sulle dichiarazioni a debito o una riduzione dei crediti spettanti. Con la necessità di aspettare la dichiarazione da presentare nel 2026 per recuperare le somme versate in eccesso.
Era stato il presidente della commissione Attività produttive della Camera Alberto Gusmeroli, responsabile fisco della Lega ad anticipare che «il Governo interverrà per sistemare con tempestività la questione degli acconti Irpef in modo che vengano effettuati basandosi sul nuovo sistema a tre aliquote, superando il vecchio calcolo dell’acconto a quattro aliquote: nessun contribuente verrà così penalizzato».
Fonte: Il Sole 24 Ore
Il contratto
Gli ermellini chiariscono che il contratto di abbonamento allo spettacolo di determinate competizioni sportive, nel caso specifico di calcio, può rientare in quello di somministrazione di prestazioni, «nelle ipotesi volte ad assicurare la visione in presenza degli incontri sportivi concordati, è un contratto ad esecuzione periodica». La società si assicura un determinato incasso anticipato e s’impegna, nei confronti dello spettatore, a organizzare la visione dell’incontro sportivo.
Questi, da parte sua, si obbliga a un pagamento, di regola contestuale all’acquisto, e diviene titolare di diversi diritti, ossia quello di assistere agli incontri stessi senza dover acquistare ogni volta il biglietto e senza correre il rischio di non reperirlo; quello di avere sempre lo stesso posto prescelto; come accertato dal Tribunale quale giudice di appello, il diritto di prelazione, per un prefissato arco temporale, per l’acquisto di ulteriori biglietti per altre competizioni nazionali e internazionali e, infine, quello di poter effettuare gli acquisti telematicamente evitando il disagio di fare fisicamente la fila.
Il tifoso aveva documentato l’incontestata tariffa agevolata, e non solo la prelazione, per l’acquisto dei biglietti per la visione degli incontri di Coppa Italia e Champions League. Ma per i giudici di legittimità si trattava solo di ulteriori benefici che non comportavano il diritto a una tariffa agevolata anche per gli incontri di campionato nazionale ai quali si riferiva l’abbonamento.
Non passa neppure l’argomento sulla «prospettazione di una campagna di aumento dei prezzi per le singole partite», tale da creare un affidamento. Per la Cassazione è un’affermazione generica, «non essendo dato comprendere quando fatta, in quali termini». Né il prezzo della prima gara Napoli-Milan poteva avere un riflesso sui prezzi di biglietti legittimamente fissati dalla società calcistica, «all’evidenza, in relazione alla tipologia di partita e al momento di mercato – rispetto agli altri a fronte dei complessivi quali si è determinato il parametro dei minori costi».
I diversi vantaggi
In questo quadro, il fatto che in precedenza la società sportiva abbia effettivamente assicurato una tariffa minore per gli abbonati «non implica che si trattasse di un’obbligazione di cui era necessariamente composto ogni nuovo abbonamento, non trattandosi di elemento naturale del negozio, né potendo individuarsi sul punto un affidamento sine die».
Fonte: Il Sole 24 Ore
Bonus nido, si parte: riviste le soglie Isee per i nati dal 2024, non rileva più il «secondo figlio»
- il bonus nido sale a 3.600 euro per tutti coloro che hanno un Isee fino a 40mila euro;
- mentre resta 1.500 euro con Isee superiore a 40.000 euro o assente.
In pratica, l’innalzamento a 3.600 euro (quota massima) sotto i 40mila euro di Isee, che l’anno scorso era previsto solo in presenza di almeno un altro figlio di età inferiore ai dieci anni nel nucleo familiare, quest’anno è esteso a tutti i bambini nati dal 1° gennaio 2024, indipendentemente dal cosiddetto “secondo figlio”.
Un’altra importante novità è legata allo stesso Isee, in particolare al valore Isee preso in considerazione ai fini della prestazione del bonus nido. Come previsto sempre dall’ultima legge di Bilancio, la quota percepita a titolo di assegno unico e universale – in questo caso nel 2023, anno di riferimento per l’Isee 2025 – non viene considerata nel calcolo dell’indicatore: lo scorporo della voce però non viene comunicata al cittadino richiedente, ma viene gestita internamente da Inps, assicura l’istituto.
I nodi da sciogliere sull’Isee
La circolare Inps sul bonus nido 2025 precisa che nel caso in cui l’Isee risulti attestato, ma siano presenti omissioni e/o difformità dei dati relativi al patrimonio mobiliare e/o dei dati reddituali autodichiarati, o nel caso siano rilevate delle incongruenze o discordanze tra i dati indicati nella Dsu presentata per il rilascio dell’Isee e i dati disponibili nelle banche dati interne gestite da Inps, l’importo del contributo verrà erogato nella misura prevista in assenza di Isee (quindi nella misura minima di 1.500 euro annui). Solo dopo la rettifica della Dsu, dopo aver sanato le difformità od omissioni, il contributo verrà ricalcolato tenendo conto dei nuovi elementi forniti.
Si ricorda che proprio in queste ore è in corso una revisione del modello di Dichiarazione sostitutiva unica che debutterà il prossimo aprile per poter recepire la novità normativa che prevede l’esclusione dei titoli di Stato (e dei prodotti di risparmio postale garantiti) dal calcolo dell’Isee fino a un importo massimo di 50mila euro. Sono stimate in circa 3 milioni le Dsu dei cittadini interessati da questo cambio in corsa e che potranno – solo una volta operativo il nuovo modello – presentare una richiesta di ricalcolo del proprio indicatore. E a quel punto, a cascata, la revisione al ribasso dell’Isee potrebbe tradursi anche in un bonus nido più sostanzioso.
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Fonte: Il Sole 24 Ore
Per la Suprema corte, infatti, l’impedimento alla registrazione «non va rinvenuto, in via esclusiva, nell’asserita notorietà del marchio «Boss», dovendosi altresì indagare, e ciò compete alla Commissione dei Ricorsi, se l’assenza di novità del marchio «Il boss dei panini» debba essere affermata non solo avendo riguardo al rischio di confusione, ma anche al rischio di agganciamento». E dunque in considerazione del fatto che il marchio successivo, senza giusto motivo, trarrebbe indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore o recherebbe pregiudizio agli stessi.
Sulla scia di queste indicazioni della Cassazione si è mossa, dunque, la Commissione ricorsi nel dare partita vinta al «boss dei panini». Per la Commissione il marchio posteriore, anche se rivalutato alla luce dei principi dettati dalla Cassazione, «resiste sia al denunciato rischio confusorio sia a quello di agganciamento, in quanto il termine boss, circoscritto e dall’articolo determinativo e dall’espressione “dei panini”, non risulta minimamente apprezzabile al marchio patronimico di cui è titolare Hugo Boss Trade Mark Management GMBH & COM».
Il boss inteso come capo e numero uno
Nella sentenza si sottolinea che la parola «boss», inglobata nel marchio, pur essendo in teoria sovrapponibile al patronimico del marchio anteriore, altro non è che un puro lemma angloamericano, spesso usato, anche in maniera scherzosa, per indicare un capo, un numero uno, un padrone investito di qualche autorità in un campo.
La Commissione esclude che il consumatore medio possa pensare che i prodotti del «boss dei panini» siano gli stessi solennemente indicati dal marchio Boss «peraltro molto conosciuto nel settore dell’abbigliamento di un certo livello e quindi ragionevolmente percepita lontana dal mondo frugale dei consumatori dei panini». Rischio di confusione e agganciamento fugato, anche grazie alla dimostrazione dell’ampio uso che della parola «boss», intesa come leader, si fa in tv e in rete dove abbondano i marchi «boss», come il «boss delle cerimonie», il «boss delle torte» ecc., tutti in teoria concretamente più apparentabili al brand tedesco.
Soddisfatto l’avvocato Angelo Cocozza, legale del titolare del marchio “debole” vincitore, dopo ben cinque gradi di giudizio. «Capita spesso che ci siano contenziosi sui marchi, ma i piccoli imprenditori hanno raramente la forza di portare fino in fondo le contese contro dei colossi. Questa volta siano arrivati alla fine. La Hugo Boss ha avuto con noi l’opportunità di ottenere il riconoscimento di marchio forte».
Fonte: Il Sole 24 Ore
La strada da fare, ovviamente, è ancora lunga: negli ultimi anni, infatti, le aziende si sono trovate sempre più a fare i conti con l’onere di dover trovare un equilibrio tra l’autonomia professionale del Dpo e l’organizzazione aziendale. Un tandem che non può reggersi se non si appoggia, da un lato a un sistema di regole in evoluzione, dall’altro a professionisti preparati e aggiornati sulla cultura aziendale su cui lavorare e da preservare. È proprio in questo perimetro che si innesta il bisogno di una formazione preventiva che, guardando al report, viene oggi erogata da oltre il 94 per cento delle aziende coinvolte.
Eppure non basta: serve, infatti, insistere sulla cultura della privacy, studiando piani d’azione per rafforzarla e consolidare la collaborazione tra le parti. Criticità a cui oltre il 73 per cento delle imprese ha risposto inquadrando il data protection officer non più come obbligo normativo ma come strumento virtuoso in grado di garantire, secondo il professor Maurizio Mensi, consigliere Cese per CIU-Unionquadri, «un vantaggio reputazionale e concorrenziale derivante dall’avvalersi di un professionista qualificato – con caratteristiche in linea coi requisiti fissati dal regolamento europeo -, e soprattutto la possibilità di dimostrare che l’organizzazione aziendale è totalmente orientata al rispetto delle regole in tema privacy».
Una figura da regolamentare
La fotografia restituita dal report punta i riflettori sull’urgenza di disciplinare la figura del Dpo che, a metà tra innovazione tecnologica e gestione protetta dei dati, può fare la differenza. Se a livello europeo, la direzione da seguire è quella dell’articolo 39 del Gdpr – che ne impone la selezione obbligatoria sulla base di qualità professionali specifiche, in particolare conoscenza della normativa e della prassi in materia di protezione dei dati, lasciando agli Stati membri carta bianca sulle competenze -, in Italia c’è un vuoto normativo problematico da correggere. Soprattutto per estirpare il rischio di affidare un incarico così delicato a profili poco preparati, privi dei requisiti e potenzialmente pericolosi.
A questa criticità CIU-Unionquadri risponde con una proposta di legge (in cinque punti) che mira a fissare criteri oggettivi per selezionare e formare il professionista con un percorso certificato e una preparazione di livello. Al primo punto della check list la definizione delle competenze: il Dpo deve conoscere bene la normativa sulla protezione dei dati ma avere anche un background interdisciplinare in grado di spaziare dalla sicurezza informatica alla governance aziendale, fino ai principi etici per il trattamento delle informazioni. Una legge può e deve chiarire quali siano le skill basilari richieste per evitare rischi complicati da gestire. Al secondo punto, quasi in continuità, il focus sul percorso formativo e le certificazioni erogate da enti accreditati. La professionalità e l’efficacia della mansione passano da un iter formativo costruito ad hoc, grazie anche a corsi universitari specializzati, master e percorsi di aggiornamento, con esami finali di verifica. Un pacchetto necessario, per la presidente della Confederazione Gabriella Ancora, «a qualificare la figura, prevedendo standard di riferimento e un percorso professionale solido, per promuovere competenze e qualità e valorizzare anche l’impresa che se ne avvale». Con un impatto positivo per il mercato del lavoro.
Fulcro della proposta l’inquadramento giuridico. Potendo il Dpo operare sia come libero professionista autonomo sia come dipendente di un ente, la legge deve chiarire margini di autonomia, responsabilità, durata dell’incarico ed eventuali incompatibilità con altre funzioni aziendali, differenziando i parametri in base all’inquadramento e stabilendo criteri stringenti. Una bussola necessaria a evitargli pressioni esterne e, soprattutto, potenziali conflitti di interessi. Che potrebberi sorgere, ad esempio, nel caso in cui si trovasse a dover controllare le proprie decisioni o quelle del dipartimento a cui è subordinato.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Prima applicazione del principio anticipato dalle Sezioni unite. La solidarietà tra indagati scatta solo se non è possibile ricostruire i singoli profitti
Fonte: Il Sole 24 Ore
Chi ha presentato la domanda in area pubblica:
- riceverà una prima e-mail all’indirizzo indicato, con un link da convalidare entro le successive 72 ore ma, una volta trascorso tale termine, il link non sarà più valido e la richiesta sarà automaticamente annullata;
- dopo la convalida della richiesta, una seconda e-mail indicherà la presa in carico, con il numero identificativo della pratica e il riepilogo dei dati inseriti.
Infine, se la documentazione di riconoscimento allegata è completa e corretta, sarà inviata una terza e-mail con il link per scaricare, entro i successivi 5 giorni (120 ore dal ricevimento del link), la «Ricevuta di avvenuta presentazione della dichiarazione di adesione alla riammissione alla Definizione agevolata». Decorso tale termine, non sarà più possibile effettuare il download.
La comunicazione delle somme dovute entro il 30 giugno
Come sottolineano le faq della riscossione, per i debiti indicati nella domanda di adesione alla riammissione che sarà presentatata entro il prossimo 30 aprile, per i quali ricorrono le condizioni della riammissione, agenzia delle entrate Riscossione (Ader) invierà ai richiedenti, entro il 30 giugno 2025, una nuova «Comunicazione delle somme dovute» con l’ammontare complessivo degli importi da corrispondere ai fini della Definizione agevolata, nonché il piano di pagamento delle rate.
Stop a nuovi pignoramenti e fermi amministrativi
La presentazione della domanda di riammissione comporta dei vantaggi immediati per i contribuenti. In seguito all’invio dell’istanza, agenzia delle Entrate Riscossione (Ader):
- non avvierà nuove procedure cautelari o esecutive;
- non proseguirà le procedure esecutive precedentemente avviate salvo che non abbia già avuto luogo il primo incanto con esito positivo.
Resteranno, invece, in essere eventuali fermi amministrativi o ipoteche, già iscritte alla data di presentazione della domanda. Inoltre, il contribuente, sempre per i debiti «definibili», non sarà considerato inadempiente per i rimborsi e i pagamenti da parte della Pa e per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (Durc).
Fonte: Il Sole 24 Ore
Nel caso invece di sosta tariffata, le cose si complicano. In questo ambito, la situazione normativamente più semplice, cioè quella del mancato pagamento della tariffa, è punita con la sanzione da 42 a 173 euro, oltre a una maggiorazione pari al costo del parcheggio del veicolo per un intero giorno di calendario. Viceversa, laddove la violazione consistesse in un pagamento insufficiente (quando si paga fino a una certa ora e si torna a riprendere il veicolo dopo quell’ora), si apre un calcolo forse non semplicissimo: qualora il superamento fosse avvenuto entro il limite del 10%, non si applicherà alcuna sanzione; se il superamento fosse superiore al 10%, ma inferiore al 50% del periodo di tariffa corrisposta, si applicherà una sanzione ridotta del 50%, mentre in caso di superamento del 50% la sanzione verrà applicata nella sua interezza.
Inoltre, nei casi di applicazione della sanzione, intera o ridotta, la stessa sarà maggiorata di un importo corrispondente all’intero giorno di calendario relativo all’accertamento della violazione.
Le complicazioni
Qualche obiezione al meccanismo proposto dalla nuova normativa è facilmente ipotizzabile: oltre alla complicazione applicativa (non sempre l’agente di passaggio sa con certezza da quanto tempo il mezzo è in divieto e quante volte è stato sanzionato), è facile rilevare che la tariffa non può essere considerata una sanzione. Quindi, in fase di riscossione coattiva, dovrà seguire un meccanismo diverso: per esempio non sarà possibile applicare la maggiorazione, pari al 10% semestrale, prevista per le sanzioni amministrative dalla legge 689/1981.
Parlando invece di una fase precedente, e cioè del pagamento diretto del verbale, l’interessato dovrà fare molta attenzione, se dovesse avvalersi della riduzione del 30%, prevista per chi paga entro cinque giorni: l’abbattimento percentuale potrà essere effettuato solo sulla somma inerente alla sanzione e non sulla tariffa del parcheggio.
Altrettanto problematico appare il caso del pagamento in difetto, magari per un banale errore di calcolo. Le possibilità che si presentano sono due: imputare la somma non pagata alla sanzione, e quindi procedere coattivamente secondo quanto previsto dal Codice della strada (soluzione più probabile, anche in tema di imputazione del pagamento), oppure richiedere all’interessato di integrare il dovuto, considerando il debito residuo a titolo di tariffa del parcheggio.
Fonte: Il Sole 24 Ore