Diritti umani: il festival Fifdh insegna a diventare attori, non solo spettatori

Taghi Rahmani, giornalista e marito della Nobel Narges Mohammadi, al termine del disturbante Là où dieu n’est pas, di Mehran Tamadon, sulla tortura nelle carceri iraniane che pure lui ha subìto, ha invocato la liberazione della moglie, colpevole di aver incitato le iraniane a scoprire il volto. Per raccontare l’indicibile, per far vedere ciò di cui non esiste testimonianza, Tamadon in Là où dieu n’est pas ha avuto l’idea brillante di chiedere a tre vittime della tortura di ricostruire con materiali di fortuna la stanza dove erano seviziati o imprigionati, e nel frattempo li ha fatti spiegare cosa avveniva. Ne è nato un documentario di grande suggestione e interesse, anche per la partecipazione di Homa Kalhori, cui la tortura ha spezzato la volontà a tal punto da provocarle una conversione e trasformarla in carnefice. Dopo anni in cui è rimasta convinta di aver fatto la volontà di dio seviziando le donne ribelli, è riuscita a emergere dalla gabbia mentale in cui era rimasta imprigionata, e lo ha raccontato prima in un libro Una bara per i vivi (purtroppo disponibile solo in persiano) e poi nel documentario.

«Non si può prevenire la violenza con la violenza! Bisogna giocare su un altro piano» ha detto la celeberrima attivista americana Angela Davis, venuta a Ginevra per parlare delle violenze commesse dalla polizia. Quale piano? «Anzitutto ci vorrebbero scuole, sanità, alloggi per tutte e tutti, una società e una vita comune ripensate integralmente…»

Nell’anno in cui la metà della popolazione mondiale va al voto senza regole sull’uso dell’intelligenza artificiale lascia sgomenti Total trust, di Jialing Zhang, che mostra il sistema di sorveglianza tecnologica in atto in Cina.«Svelando quel che pare essere un vero scenario orwelliano, il documentario mostra in maniera avvincente la persecuzione dei difensori e delle difenditrici cinesi dei diritti umani e denuncia l’utilizzo delle più moderne tecnologie di sorveglianza per controllare meticolosamente la vita di milioni di persone. Quest’immagine sconcertante dell’incremento dell’autoritarismo solleva una domanda importante: un avvenire controllato dalla tecnologia, dove non saremo più liberi di esercitare i nostri diritti, è un rischio reale che corriamo tutti?» hanno scritto i giurati che hanno assegnato al film il premio Focusprix dell’Organizzazione mondiale contro la tortura.

Il documentario segue la vita delle famiglie di alcuni prigionieri politici, il controllo minuzioso delle loro vite e di quelle dei loro figli tramite dati biometrici e non raccolti in continuazione con la scusa della sicurezza, costantemente sorvegliati da telecamere piazzate in tutti i luoghi che frequentano, financo sui balconi dei vicini, in modo da sbirciare nei loro appartamenti, davanti alle case di tutti i parenti, e in parallelo l’esperimento sociale iniziato nel 2012: un programma pilota per controllare la popolazione basato sul lavoro di 4,5 milioni di “guardie della griglia”. I cittadini infatti sono stati suddivisi in delle griglie e affidati a un controllore che li controlla costantemente, sorveglia i loro movimenti, comportamenti, abitudini, aiutato anche dalle denunce degli altri cittadini. Controllato digitalmente, il sistema si basa su un meccanismo a punti: chi si comporta male perde punti, mentre li guadagna chi si importa bene, per esempio facendo la spia o del lavoro volontario. Ci sono 190 modi per guadagnare punti, e 1040 per perderli, per esempio protestando, facendo causa al governo, comportandosi in modo originale a matrimoni o funerali. Il numero di punti influenza la possibilità di prendere aerei, treni, di postulare per certi lavori o certi bandi pubblici, la possibilità che i figli possano frequentare le scuole migliori.

Total trust è stato seguito da un forum in cui Peggy Hicks, direttrice del Coinvolgimento tematico, delle procedure speciali e del diritto allo sviluppo dell’Alto commissariato per i diritti umani si è detta molto preoccupata del fatto che non esistano ancora regolamentazioni sull’uso dell’intelligenza artificiale, nemmeno sull’uso del riconoscimento facciale. L’avvocata specializzata in diritti umani Susie Alegre ha detto che bisogna al più presto regolamentarla, e che non si può aspettare di fare un accordo internazionale, o anche solo un accordo a livello dei singoli Paesi, ma ogni singolo settore deve iniziare a darsi delle regole. Ha fatto l’esempio degli avvocati, spiegando che gli specialisti di ogni settore sanno cosa è più urgente regolamentare al loro livello, e che devono farlo. «Non dobbiamo essere ossessionati dall’idea di fare delle regole generali e omnicomprensive, cominciamo invece a regolare i vari settori!» ha detto, e Hicks le ha fatto eco, proponendo anche una responsabilità delle imprese a non violare con i loro prodotti i diritti umani. «Se le aziende temono multe elevate o la prigione per i loro dirigenti ci penseranno due volte prima di mettere sul mercato tecnologie lesive dei diritti umani». Allarmata sulle elezioni che coinvolgeranno quest’anno metà della popolazione mondiale Alegre ha aggiunto che i big data ci possono dare dei suggerimenti su come pensa la gente, ma anche su come manipolare il loro pensiero e ha fatto notare come non sia necessario raccogliere tutti i dati che ogni giorno vengono raccolti. Del resto gli spettatori del Fifdh sono stati allertati su questo già nel 2019, con la proiezione dell’interessantissimo documentario The Great Hack: L’affaire Cambridge Analytica, di Jehane Noujaim e Karim Amer.

Fonte: Il Sole 24 Ore