Grazia Deledda accese sulla Sardegna le luci della ribalta mondiale

Che sia colpa del pregiudizio di certa critica che non le perdonava la «sardofonia» del suo scrivere e che troppo frettolosamente la aveva relegata al «Verismo», o l’ingenerosa e fors’anche misogina elaborazione romanzesca in Suo marito che ne fornì Pirandello, o ancora l’acredine con cui i suoi concittadini accolsero i suoi scritti perché rei di dipingere una Sardegna strettamente legata a riti ancestrali, fatto sta che Grazia Deledda con le sue possenti e aeree narrazioni espressioniste non ha mai goduto appieno del ruolo che pure il riconoscimento del premio Nobel per la Letteratura nel 1926 le aveva conferito, restando ai margini del canone letterario italiano.

«Io non riuscirò mai ad avere il dono della buona lingua» scriveva lei stessa, in ciò confermando quel senso di inferiorità che, dopo il ciceroniano «mastrucati latrones», secoli e secoli di dominazioni avrebbero instillato nei sardi, e che solo il risveglio letterario degli ultimi decenni ha riscattato, con il fiorire di scrittori acclamati nel «Continente» e non solo. Lo stesso scrivente, cagliaritano per nascita, scritti e affezione, soffre in più del cliché «cittadino», che fa della aristocratica capitale un luogo a sé nell’Isola.

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Viaggio in Sardegna

Ecco perché il viaggio in Sardegna di Rossana Dedola si segnala come una scoperta e ritrovo di luoghi lontani e spesso sconosciuti oltre che come estremo atto d’amore e riscatto, filologicamente sostenuto, per una scrittrice che «affidando il primitivismo e l’anima arcaica di quel mondo e dei suoi abitanti all’universalità della grande scrittura è riuscita a proiettarli verso il futuro». «Perché, Signore, Paulo (un prete, ndr) non poteva amare una donna? Tutti potevano amare» (La madre).

«La passione sessuale si fonde all’amore senza le spire del sentimentalismo» commentava argutamente D. H. Lawrence, che sulla scia delle letture della Deledda attraverserà l’Isola in treno per poi narrarne il viaggio. In Le colpe altrui «A Para Zironi… la rugiada gli inumidì i piedi, i sandali e l’orlo sfrangiato della tonaca; l’aria del mattino gli rinfrescò il viso ossuto rugginoso, goccioline di vapore brillarono sulla barbetta cenerognola che pareva il musco sulla roccia: e gli occhietti verdi sotto le sopracciglia arruffate brillarono anch’essi simili a due lucciole sotto la siepe». (Un “Barone rampante” ante litteram?). Ben oltre l’idea della «cartolina» cara a certa critica, qui in poche righe la Deledda riassume la poetica sua e l’anima più recondita di un intero popolo: nella Sardegna più aspra, (ancora vivaddio!), l’essere umano non domina l’universo, ma ne è parte fino al necessario mimetismo con le piante, le rocce, gli animali.

Dimensione arcaica

Una dimensione arcaica che la Dedola ritrova e ripercorre da Dorgali a Nuoro, da Galtellì a Siniscola, Orune e Mamoiada, tra «cumbessias», novenari, processioni, riti e figure mitologiche, che in un sincretismo viscerale e necessario, segnano d’animismo il cattolicesimo più sentito e toccante. Perfino i dubbi di un Flavio Soriga che in Sardinia Blues avverte, a buon diritto, tutte le ristrettezze del raccontare una Sardegna vittima di troppi stereotipi, trovano in questo libro ben più di una spiegazione. Non che il mondo agro pastorale descritto dalla Deledda oggi non esista più, solo che le abitudini sono cambiate, con i pastori che governano le greggi dai pick-up.

Fonte: Il Sole 24 Ore