Il no al Jobs Act e la strategia di Schlein: superare il renzismo e coprire la sinistra

Fine della reintegra sul posto di lavoro previsto dall’articolo 18 del vecchio Statuto dei lavoratori, sostituita dall’indennizzo economico «a tutele crescenti» a seconda dell’anzianità professionale. Sono passati quasi dieci anni da quando Matteo Renzi, allora premier e segretario di un Pd primo partito d’Italia, rompeva l’ultimo tabù della sinistra e approvava, ovviamente con il voto favorevole dei parlamentari dem a parte qualche mugugno nella sinistra bersaniana, il Jobs act. Che resta ancora oggi l’ultima riforma complessiva del mercato del lavoro: l’obiettivo era da una parte superare la selva dei contrattini a tempo determinato con l’introduzione del contratto unico a tutele crescenti, dall’altra estendere a tutti i lavoratori le tutele previste per quelli a tempo indeterminato e introdurre per la prima volta con la Naspi un sussidio di disoccupazione universale.

La decisione di Schlein di firmare i quesiti: chiusa stagione del riformismo?

Fiore all’occhiello del riformismo dem, quella riforma che non è stata del tutto attuata per mancanza di fondi viene ora identificata dalla Cgil, dal M5s e dalla sinistra interna ed esterna al Pd come responsabile del precariato, soprattutto giovanile. E la decisione della segretaria del Pd Elly Schlein di firmare a titolo personale il quesito referendario abrogativo proposto dal sindacato rosso sembra mettere la pietra tombale sulla lunga stagione del riformismo dem spostando definitivamente a sinistra l’asse del partito.

I dati: negli ultimi 15 anni il lavoro stabile è aumentato

Ma davvero il Jobs act ha aumentato il precariato? Dai dati non sembrerebbe proprio, come ricorda il “padre” della riforma renziana Pietro Ichino, che già da parlamentare del Pci (sic) propugnava il modello scandinavo della flexsecurity: «I dati Inps e Istat dicono il contrario di quello che sostiene il leader della Cgil Maurizio Landini: negli ultimi quindici anni la probabilità di essere licenziati è rimasta invariata, mentre i rapporti a tempi indeterminato sono aumentati sia in valore assoluto sia in percentuale sulla forza lavoro e i rapporti a termine sono rimasti circa un sesto del totale, in linea con la media Ue». Per l’esattezza, secondo le serie storiche dell’Istat a marzo 2015 il numero di occupati in Italia era di 22.014.000, a marzo 2024 siamo saliti a 23.849.000. Gli occupati permanenti, vale a dire gli assunti a tempo indeterminato, nello stesso periodo considerato, sono passati da 14.316.000 a quasi 16 milioni (15.966.000 per l’esattezza). E l’occupazione a termine, a marzo 2024, è a quota 2.828.000, senza particolari boom, e in linea appunto con le medie internazionali.

L’allarme di Ichino: tornare indietro disincentiverebbe gli investimenti esteri

«Per altro verso – continua Ichino – l’armonizzazione della nostra disciplina dei licenziamenti rispetto al resto dell’Ue, attuata con quel decreto resta indispensabile se vogliamo evitare un disincentivo all’afflusso degli investimenti esteri dei quali l’Italia non può fare a ameno per promuovere l’aumento della produttività del lavoro e quindi anche delle retribuzioni. La riforma dei licenziamenti ha portato infine a un dimezzamento del contenzioso giudiziale su questa materia, eliminando un’anomalia tutta italiana».

Se passassero i referendum non tornerebbe l’articolo 18

Non solo. Anche dal punto di vista squisitamente tecnico i quesiti referendari della Cgil, se ammessi al voto e poi effettivamente approvati, non produrrebbero effetti significativi. «Praticamente nulli», sottolineano i giuslavoristi. Intanto perché, dopo le modifiche del 2018 operate dalle sentenze della Corte costituzionale il Jobs act non è più lo stesso ma è stato modificato, riducendone la portata. Eppoi, se pure fosse cancellato, come chiede chi propone il referendum, non si tornerebbe l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970. «Si tornerebbe alla legge Monti-Fornero del 2012 – spiega sul Sole 24 Ore Maurizio Del Conte, professore di diritto del Lavoro all’università Bocconi di Milano – che aveva già scalfito la tutela reintegratoria, moltiplicando le fattispecie di licenziamento e diversificando le sanzioni, creando però solo incertezze e contenzioso».

Fonte: Il Sole 24 Ore