L’acquacoltura sperimenta modelli innovativi e sostenibili

«Coltivare il mare e lasciar stare la terra» era già la regola d’oro della Repubblica di Venezia, mille anni fa. Da allora ad oggi la blue economy è cresciuta, fino a diventare la settima economia del pianeta, con un Pil direttamente legato al mare di oltre 2mila miliardi di dollari, in base alle stime dell’Ocse, che prevede un aumento a 3mila miliardi entro il 2030. Il mare può assicurare il futuro dell’umanità, in termini di sicurezza alimentare, di protezione dall’emergenza climatica e di produzione di energia rinnovabile.

Il 93% degli oceani sono sovrasfruttati

La blue economy, infatti, cresce molto più rapidamente dell’economia di terra, ma serve una strategia nuova di sviluppo sostenibile, se non si vuole arrivare al collasso di un ecosistema troppo sfruttato. L’innovazione tecnologica sarà essenziale per contenere i danni all’ambiente marino, che alla lunga rischiano di ridurne il valore.

Già oggi, le rotte degli umani assomigliano a quelle dei gabbiani: 18 delle 21 megalopoli del mondo sorgono in riva al mare e oltre 4 miliardi di persone (metà della popolazione umana) vivono entro cento chilometri da una costa. Pesci, crostacei e alghe sono la fonte primaria di sostentamento per almeno tre miliardi di persone, con tendenza in forte crescita, ma la pesca sta svuotando gli oceani e quindi anche per questa risorsa alimentare è arrivato il momento di passare dalla caccia all’allevamento, com’è successo secoli fa per il bestiame sulla terraferma. Nel 2014, per la prima volta nella storia, il pesce allevato ha superato sulle nostre tavole il peso del pesce catturato in alto mare (10,3 chilogrammi pro capite contro 9,7). E sarà sempre di più così, con la quota della pesca destinata a calare, se non altro per carenza di pesci nel mare. Il 93% degli oceani, secondo la Fao, sono sovrasfruttati (36%) o già sfruttati al massimo (57%). Il Mediterraneo, in particolare, è il mare più sovrasfruttato del mondo (58%) e le sue risorse stanno rapidamente scomparendo.

L’acquacoltura come minaccia per il mare

L’acquacoltura, al contrario, cresce a ritmi vertiginosi. A livello globale, fornisce ormai il 52% dei prodotti ittici consumati nel mondo (87 milioni di tonnellate all’anno contro i 79 milioni della pesca) e dal 1990 la produzione è aumentata di oltre il 500%, mentre la pesca è rimasta più o meno costante. In base alle previsioni Fao, la produzione dell’acquacoltura supererà i cento milioni di tonnellate all’anno nel 2027. Ma, anche se la sua impronta di carbonio è sorprendentemente bassa – meno dello 0,5% delle emissioni complessive, rispetto al 14,5% dell’allevamento di bestiame, in base a uno studio pubblicato su Nature nel 2020 – l’acquacoltura può causare gravi danni agli ambienti marini. Tra i principali problemi ci sono l’inquinamento chimico, la fuga dei pesci d’allevamento e la diffusione di malattie e parassiti. Per questa e per altre ragioni cresce molto di più l’acquacoltura su terraferma di quella in mare (a oggi 54 milioni di tonnellate contro 33 milioni in mare).

La Norvegia investe sull’acquacoltura di terra

In Europa, la Norvegia è la regina dell’acquacoltura ed è anche il secondo esportatore di prodotti ittici del mondo, dopo la Cina, con più di due milioni e mezzo di tonnellate all’anno, soprattutto di salmoni e trote. L’obiettivo del governo è raddoppiare i volumi a cinque milioni entro il 2050. Di conseguenza i produttori norvegesi si stanno organizzando con le migliori tecniche di allevamento sostenibile e puntano ad aumentare le quote di prodotti biologici garantiti, che hanno un valore aggiunto superiore. «L’acquacoltura di terra è il futuro», sostiene Rob Fletcher, direttore del sito web di acquacoltura The Fish Site. «Il costo per allevare pesci in mare sta aumentando e la disponibilità dei siti costieri è limitata, mentre con i sistemi di acquacoltura a ricircolo terrestri in teoria si può installare un allevamento ovunque, dalla Florida al Medio Oriente», spiega Fletcher.

Fonte: Il Sole 24 Ore