Nei villaggi dove il turismo diventa lento e consapevole.E protegge le culture locali

È curioso che il saggio di Rodolphe Christin, “Turismo di massa e usura del mondo”, sia stato pubblicato in Italia proprio durante l’ultima estate prima della pandemia. Era il 2019, quando nel mondo secondo l’Unwto (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa del turismo e promuove il suo sviluppo sostenibile) si erano spostati 1,4 miliardi di turisti, cifra in costante aumento da almeno dieci anni. Lo stop totale imposto dal Covid a piccoli e grandi spostamenti aveva offerto un’opportunità, se non di revisione, almeno di riflessione su certi deleteri effetti di questi enormi numeri, come quella che Christin stesso definisce la “mondofagia”, una fame inquieta e senza freni di mondo che trova in un certo tipo consumistico di turismo uno dei suoi più efficaci canali d’espressione. Un modo di viaggiare potenzialmente insoddisfacente e persino dannoso, nel suo approccio ad alta intensità alle destinazioni. Ora, sempre secondo l’Unwto, il 2023 si avvia a recuperare circa il 90% dei valori pre-pandemia del turismo globale. Sarà un nuovo trionfo della mondofagia? La stessa agenzia Onu ha provato nel 2021 a proporre un’alternativa, un antidoto a questo approccio, lanciando un ambizioso progetto per promuovere un turismo più consapevole, rispettoso, che permetta ai viaggiatori di abbandonare i canali più battuti e a chi vive nei luoghi di destinazione non solo di proteggere la propria identità e cultura, ma di farne un canale di sviluppo: si tratta della rete dei “Best Tourism Villages”, che comprende oggi 130 località in tutto il mondo, accomunate dal fatto di essere piccole realtà, perlopiù in luoghi rurali e remoti, dove le comunità locali curano l’offerta turistica nel rispetto della loro cultura, spesso antichissima, e del loro territorio.

«Ogni progetto di sviluppo nel turismo dovrebbe avere lo stesso obiettivo: massimizzare gli effetti positivi del settore sulle comunità e minimizzare gli impatti negativi che potrebbe generare sull’ambiente della destinazione e sul tessuto sociale e sulla cultura dei suoi residenti – dice Sandra Carvao, responsabile della divisione dell’Unwto che si occupa di mercato e competitività -. In quest’ottica il turismo rurale può essere uno strumento di protezione, poiché offre alle comunità locali l’opportunità di investire nella conservazione e promozione della loro cultura e nello stesso tempo di creare lavoro, soprattutto per i più giovani, e fermare così lo spopolamento, una delle più urgenti e gravi sfide per le aree rurali in tutto il mondo. D’altra parte, promuovendo esperienze autentiche e senza mediazioni, supportando per esempio l’artigianato locale, la cultura alimentare, le lingue e le tradizioni, il turismo diventa un catalizzatore per lo sviluppo culturale e un’occasione per favorire la comprensione reciproca e il rispetto».

L’inarrestabile crescita del turismo mondiale potrà diventare fattore di tutela di questa biodiversità? Le destinazioni e le storie dei Best Tourism Villages sono di importante supporto: per esempio, a Batu Puteh, nelle fitte foreste pluviali di Sarawak, Malaysia, area spopolata e impoverita a causa della deforestazione, ai turisti si propone di partecipare alla piantumazione di nuovi alberi; a Lephis, nel cuore della foresta omonima in Etiopia, nota per le sue cascate, si possono acquistare prodotti dell’associazione degli artigiani del villaggio, come monili di perline e sculture di legno; nello storico porto cileno di Caleta Tortel, fra gli infiniti Campos de Hielo Norte e Sur, si può apprezzare l’antica produzione di materiali edilizi fatti con il legname del locale cipresso delle Guaitecas.

E a Biei, nell’isola giapponese di Hokkaido, l’intera economia del turismo valorizza tutto ciò che vive intorno ai suoi magnifici e interminabili campi di papaveri, lavanda e girasoli. «I modelli di gestione affidati alle comunità fanno sì che l’influsso dei visitatori sia regolato e abbia un reale rispetto per ambiente e costumi locali. In questo senso il turismo rurale diventa una forza per preservare l’autenticità – nota Carvao, che loda anche i membri italiani del progetto -. A San Ginesio, nei Monti Sibillini, abbiamo organizzato il nostro più recente meeting globale, lo scorso luglio. L’Italia ha dimostrato una partecipazione molto attiva alla nostra iniziativa». I Best Tourism Villages nella nostra Penisola sono finora quattro: l’ingresso più recente è quello della ligure Lerici, esempio virtuoso di promozione del turismo blu, con il bel progetto Smart Bay Santa Teresa, il primo laboratorio di ricerca sottomarino. Oltre a San Ginesio, c’è anche l’Isola del Giglio, impegnata da tempo nella valorizzazione del suo patrimonio storico, ma anche nel’abolizione della plastica monouso, e Sauris-Zahre (il secondo è il suo nome nella peculiare e antica lingua locale), incastonata nelle Alpi Carniche friulane, sede dal 1994 del primo albergo diffuso d’Italia.

Questo modello virtuoso può riguardare, con vantaggi reciproci, anche aree già molto sviluppate turisticamente o che lo diventeranno: dei villaggi fanno infatti parte anche l’Old Grand Port di Mauritius (Paese da 1,5 milioni di arrivi nel 2022, a fronte di 1,4 milioni di abitanti) e AlUla, cuore del progetto di sviluppo turistico da oltre 2 miliardi di dollari del regno saudita. Le alternative alla “mondofagia” possono trasformarsi nei suoi antidoti.

Fonte: Il Sole 24 Ore