Pietra, vento e idee: viaggio nella rinascita dell’Alta Gallura

Aveva le batterie scariche. Era smarrito. La natura aspra della Gallura, ruvida e granitica, vuota di tracce antropiche, fu l’occasione per prendere le distanze dal circo di discografici in cui non si riconosceva. Così, prima di altri, negli anni Settanta, Fabrizio De André si mise alla ricerca di uno stazzo, la casa tipica dell’Alta Gallura, un parallelepipedo fatto di travi di ginepro, muri di pietra, il tetto a due falde. All’Agnata, lo stazzo tra Coghinas e Tempio Pausania dove De André e Dori Ghezzi piantarono betulle e mandorli, limoni e asfodeli, non c’era l’elettricità. Il buio diede loro la possibilità di sperimentare altre e più intime possibilità di conoscenza.

De André fu tra i primi a riscoprire la Gallura, l’altopiano granitico incuneato verso la Corsica, delimitato dalle Bocche di Bonifacio, il fiume Coghinas, la catena del Limbara – la Montagna Madre – e da un’ideale linea che in modo sinuoso unisce il Limbara a San Teodoro. La sua parte Alta, interna e ondulata, aliena alla sovraesposizione della costa, è stata per secoli in abbandono. Paolo Fresu non era ancora arrivato con il suo Time in Jazz per far suonare le campane delle chiese con le trombe dei jazzisti, le zappe contadine con i contrabassi. Né il biologo naturalista Daniel Lumera, scrittore e divulgatore sul tema della meditazione, aveva ancora progettato di trasformare un centro di recupero sotto il Monte Pinu, nel comune di Telti, in un polo di ricerca sulla qualità della vita.

Habitat di savane, tafoni (grotte) dalle forme mostruose e foreste di querce, lecci e sughere, l’Alta Gallura viene ripopolata nel 1800 dai boscaioli toscani alla ricerca di carbone. Con il tempo, i toscani insegnano ai pastori-contadini a impreziosire le architetture elementari – stazzi risalenti al ‘700 e le chiesette campestri medievali – con piccole lavorazioni su architravi e capitelli, e a sostituire la “trave storta” che reggeva la capriata con un arco a tutto sesto. Gli stazzi cominciarono a dotarsi di orti, campi d’orzo, recinti per pecore e maiali, con le “chiarie”, le aree per il pascolo delle greggi, gradualmente sottratte al granito e al bosco. Orientate a Levante, riparate dai venti e collegate da una rete di sentieri, queste case rurali – 3.600 in Gallura di cui 820 solo a Luogosanto, spesso collocate su scelte insediative nuragiche – decadono con l’abbandono delle campagne negli anni Sessanta. Ci vollero De André e un manipolo di altri falsi pazzi per ripulirle dall’abbraccio invasivo delle foreste e della macchia.

Negli anni Duemila, dopo i primi casi di riconversione in agriturismo – l’Agnata, La Cerra sotto l’alto monolite del Monte Pulchiana, il Muto di Gallura fuori Aggius, Lu Branu tra Arzachena e Palau che ha anche un piccolo stazzo-museo -, è il progetto “Atlante dell’Innovazione” di Lidia Decandia del Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica dell’Università di Alghero (anche autrice del recente “Territori in trasformazione”, Donzelli 2022) a individuare i nuovi embrioni di mutamento in Alta Gallura: «Indizi di innovazione – afferma la professoressa – , modalità inedite di riabitare il territorio, nuove forme di produzione legate alla terra, piccole economie pensate in relazione all’ambiente: una nuova ondata di ripopolamento che vede come fulcro il territorio di Luogosanto, intermedio tra la costa e l’interno».

A Luogosanto apre, su un crinale inclinato, la tenuta Tresserri di Donatella e Tomaso Pirini, lui architetto, con stazzi di nuova costruzione ispirati all’architettura vernacolare, proposti in affittto. Azienda agricola con campi di grano e lavanda e produzione di miele, a Tresserri, dove è piacevolissimo perdersi in camminata, si stanno anche recuperando vecchi innesti di vigna.

Fonte: Il Sole 24 Ore