Rubini, Meneghin e quegli indimenticabili anni d’oro del basket italiano

Ognuno di noi, anche il più incallito trinariciuto, ha una sua America. Un’America intesa come posto del cuore. Come l’ultimo rifugio conosciuto quando le cose vanno meno bene e allora per tirarci su il morale ci diciamo: eh, sì, quel periodo è stato davvero bello, anni formidabili, ce la siamo goduta e adesso pazienza… Capita col cinema, la politica, la musica e soprattutto con lo sport, materia adattissima ad incatenarci il cuore perché quasi sempre coincidente con momenti particolari, forse i migliori, della nostra vita.

C’è il ciclismo “eroico” di Coppi e Bartali ricordato, a volte a sproposito, quando qualche corridore, non ancora di prima fila, vince audacemente. C’è quel calcio dei boomers, quello in bianconero di Rivera e Mazzola, mai dimenticato nonostante tutto quello che nel calcio è arrivato dopo. C’è la prepotente atletica di Pietro Mennea e Sara Simeoni, simboli di un’Italia che finalmente mette in riga russi e americani. E poi gli exploit travolgenti di Alberto Tomba e Deborah Compagnoni nello sci degli anni Novanta. E le sgommate di Valentino Rossi, le bracciate di Federica Pellegrini.

Belle storie, scolpite nei archivi della memoria, che sembrano irripetibili. Ma bisogna stare attenti, perché la memoria, lo sapete bene, gioca spesso brutti scherzi rischiando di farci diventare patetici agli occhi dei “millenial”, un po’ invidiosi per questo stupendo passato che ritorna sempre fuori a ricordare, come un coniglio dal cappello, che forse il meglio è appunto già passato.

Insomma, prudenza. Non farsi prendere la mano dalle trappole della nostalgia, sempre in agguato quando si gioca con la memoria. Come cantava Jannacci, ci vuole orecchio. Una certa sensibilità che non faccia velo alla lucidità.

Ecco Antonio Dipollina, noto commentatore televisivo di Repubblica, con licenza di graffiare nello sport, questa sensibilità la fa trasparire attraverso le pagine di un libro (La nostra America, gli anni d’oro del basket italiano, Hoepli) che è un magnifico viaggio nel periodo ruggente di uno sport che, fino a quel momento, era confinato in poche zone nebbiose del Nord, tra Milano, Varese e Cantù; praticato da tipi originali che con un certo di sussiego snobbavano il tirannico Dio del calcio, mostro onnivoro ormai imperante.

Fonte: Il Sole 24 Ore