Salute mentale dei giovani, i social media sono la nuova tossina?

I social media sono il fattore chiave del peggioramento della salute mentale tra i più giovani? Al momento il ruolo di internet nello sviluppo del pensiero dei bambini e degli adolescenti è complesso e variegato e gli studi che si occupano di questo argomento non hanno ancora raggiunto un accordo univoco. Alcune ricerche sembrerebbero dimostrare un impatto negativo dell’utilizzo prolungato dei social network sullo sviluppo delle capacità di attenzione selettiva e della concentrazione, sul pensiero critico, sulla creatività, sulla memoria a lungo termine e sui processi decisionali e di comunicazione più complessi. Altri studi, invece, sostengono che l’impatto dei social porterebbe nel tempo all’utilizzo di nuove connessioni neurali, già presenti nel nostro cervello, ma finora non sfruttate, e al conseguente sviluppo di nuove abilità cognitive e sensoriali.

Di fatto, dall’inizio degli anni 2010, i tassi di malattie mentali adolescenziali come ansia e depressione hanno subito una brusca svolta verso l’alto e da allora sono aumentati. Ancora più preoccupante, nel decennio fino al 2020 il numero di visite al pronto soccorso per autolesionismo è aumentato del 188% tra le adolescenti e del 48% tra i coetanei maschi. Ma anche il tasso di suicidio tra i più giovani è aumentato rispettivamente del 167% e del 91%. La stessa tendenza è stata osservata in molti paesi europei.

Per lo psicologo sociale Jonathan Haidt questa crisi di salute mentale è guidata dall’adozione di massa degli smartphone, insieme all’avvento dei social media e dei giochi online che creano dipendenza. Nel suo ultimo libro lo definisce addirittura “il Grande ricablaggio dell’infanzia”. Ma se ci rifacciamo alla massima di Paracelso, la dose che determina la tossicità non è nota: è il contenuto, la durata, l’uso o tutte queste cose insieme? Senza contare che a differenza delle tossine chimiche, c’è poco consenso sulla regolamentazione e sul controllo, quindi i principi di base devono ancora essere sperimentati. Inoltre, la ricerca tende a concentrarsi sui giovani, una coorte più facile da studiare rispetto ai minori. Questo deve cambiare per comprendere se davvero un’infanzia non più basata sul gioco, ma sullo smartphone può alterare lo sviluppo del cervello dei bambini.

Uno sforzo in corso in questo senso è il progetto Smart Schools dell’Università di Birmingham. L’esperta di pedagogia Victoria Goodyear sta confrontando i risultati sulla salute mentale e fisica tra i bambini che frequentano scuole che hanno limitato l’uso del cellulare con quelli che frequentano scuole senza tale politica. Il protocollo dello studio, descritto sul BMJ Open lo scorso luglio, coinvolge 30 scuole e oltre 1.000 studenti. In attesa dei risultati, è indubbio che oggi i bambini vivono in un universo digitale senza restrizioni e privo di qualsiasi guardrail di sicurezza, perchè le piattaforme di social media non sono state progettate pensando a loro. È peraltro dirimente chiedersi se l’eccessivo uso dei social può alterare lo sviluppo del cervello dei più piccoli.

«I nostri geni si modificano in funzione degli stimoli ambientali, comprese le interazioni sociali, anche quelle digitali. Il punto è capire come i social vengono utilizzati e per quanto tempo – spiega Giovanni Biggio, professore ordinario di Neuropsicofarmacologia dell’Università degli Studi di Cagliari, membro dell’American College of Neuropsychopharmacology, e tra i relatori del convegno Sinpf-Sinpia che si terrà a Cagliari il 16 e il 17 maggio – I genetisti, già due anni, fa ci hanno detto che l’evoluzione dei geni sta andando a una velocità pazzesca, nell’arco di una sola generazione. Ciò vuol dire cambiamenti importanti nel giro di pochi decenni mentre prima si verificavano dopo 100-200 anni. E tutto questo, ovviamente, coinvolge anche e soprattutto il nostro cervello. Quella attuale è dunque una generazione di transizione e, oggi, una parte di coloro che usano eccessivamente internet è geneticamente più vulnerabile, quindi più debole, e corre il pericolo di diventare vittima dei nuovi strumenti».

Fonte: Il Sole 24 Ore