Zara e H&M, l’accusa della Ong: cotone certificato ma frutto di deforestazione

Oltre ottocentomila tonnellate di cotone frutto di attività illegali di deforestazione su larga scala in Brasile. Cotone coltivato in luoghi dove si sono verificati esproprio di terre, corruzione e violenza nelle piantagioni. Cotone, soprattutto, certificato – da Better Cotton, il più grande “certificatore” di cotone sostenibile nato nel 2009 – e poi utilizzato per produrre capi di abbigliamento da gruppi della moda internazionale come Inditex (Zara, Pull&Bear) e H&M.

L’inchiesta della ong Earthside

A tracciare il viaggio di questo cotone “contaminato” – attraverso, tra le altre, alcune immagini satellitari – è stata la ong britannica Earthside nel rapporto «Crimini di moda: l i giganti europei del retail collegati al cotone sporco proveniente dal Brasile». Il cotone, nonostante la certificazione, proverrebbe da due delle più grandi aziende agroindustriali del Brasile – Slc Agrícola e il gruppo Horita – nello Stato nordoccidentale di Bahia. Secondo Earthside, le famiglie brasiliane proprietarie di queste aziende anno «una storia pesante di procedimenti giudiziari, condanne per corruzione e multe da milioni di dollari per deforestazione illegale». Il Brasile ha aumentato drasticamente la produzione di cotone negli ultimi decenni, quasi tutta nel Cerrado, dove ora viene coltivato abitualmente in rotazione con la soia. Si prevede che entro il 2030 il Brasile supererà gli Stati Uniti diventando il più grande esportatore di cotone al mondo.

La richiesta di chiarimenti da Inditex e le precedenti accuse a Better Cotton

A seguito della pubblicazione del report, secondo quanto riportato da Reuters, lo scorso 8 aprile il gruppo galiziano Inditex ha inviato una lettera al ceo di Better Cotton Alan McClay chiedendo delucidazioni sul processo di certificazione e sui progressi sulle pratiche di tracciabilità messe in atto da BC. Il “Better cotton” attualmente viene attualmente coltivato in 22 Paesi in tutto il mondo (tra cui il Brasile, che ne produce il 42% del totale, ma anche in Egitto, Mali e Mozambico) e rappresenta quasi un quarto (22%) della produzione mondiale di cotone. Nella stagione 2022-23 – si legge sul sito – 2,2 milioni di Better cotton farmers hanno coltivato 5,4 milioni di tonnellate di cotone certificato. Non è la prima volta che l’operato del certificatore viene criticato e accusato sostanzialmente di greenwashing, tanto che tra il 2020 e il 2021 il programma di sostenibilità ha cambiato nome e ha messo nero su bianco una nuova strategia con orizzonte 2030. Nel 2017 il fondatore di Patagonia Yvon Chouinard, uno dei pionieri della moda sostenibile, in un’intervista a Der Spiegel arrivò a definire Better Cotton Initiative «absolute bullshit: pure greenwashing».

«Queste aziende parlano di buone pratiche, responsabilità sociale e sistemi di certificazione, affermano di investire in tracciabilità e sostenibilità, ma tutto questo ora sembra falso quanto le loro vetrine nelle strade principali – ha detto Sam Lawson, direttore di Earthsight -. È ormai molto chiaro che i crimini legati ai beni che consumiamo devono essere affrontati attraverso la regolamentazione, non attraverso le scelte dei consumatori. Ciò significa che i legislatori dei Paesi consumatori dovrebbero mettere in atto leggi forti con un’applicazione rigorosa. Nel frattempo, gli acquirenti dovrebbero pensarci due volte prima di acquistare il prossimo capo di abbigliamento in cotone».

La norma europea (che non include il cotone)

Il nuovo regolamento UE 2023/1115 sulla deforestazione, entrato in vigore nel giugno 2023, obbliga le aziende a tracciare la provenienza delle materie prime per assicurare che non siano frutto di pratiche che danneggiano le foreste, ma non riguarda il cotone bensì olio di palma, bovini, soia, caffè, cacao, legno e gomma o prodotti derivati quali carni bovine, mobili o cioccolato.

Fonte: Il Sole 24 Ore