«Adorazione», un racconto di formazione carico di mistero

Non lasciano mai indifferenti i film di Fabrice Du Welz e non fa eccezione il suo «Adorazione», un lungometraggio che arriva finalmente nelle nostre sale a quasi tre anni di distanza dalla presentazione al Festival di Locarno.

Il regista belga aveva fatto molto parlare di sé con il suo controverso esordio «Calvaire» del 2004, ma negli anni successivi ha realizzato altri lavori decisamente interessanti, a partire da «Alleluia» del 2014.Se la sua opera prima sfociava in un horror dai tratti grotteschi, le tonalità inquietanti non mancano anche in «Adorazione», film con protagonista Paul, un ragazzo di 12 anni che vive insieme alla madre sul limitare di un bosco, molto vicino a una clinica psichiatrica. Tra i pazienti dell’istituto c’è Gloria, una ragazzina con cui Paul instaura un legame molto forte fin dal primo sguardo: i due scapperanno insieme alla ricerca di una nuova vita.

Ambientato nella zona delle Ardenne, come gli altri due film di Du Welz sopracitati, «Adorazione» è un racconto di formazione in cui i due giovani coetanei “giocano” a fare gli adulti, lasciando però dietro di sé una lunga scia di sangue.È un prodotto che parla di sentimenti forti (il titolo non è scelto a caso), come dimostrano anche le essenziali, eppur risolutive, parole finali di un dialogo che lascia aperte numerose interpretazioni.

Una fiaba gotica ricca di suggestioni

Du Welz usa spesso la cinepresa a mano per farci vivere ancor più intensamente il viaggio dei due protagonisti, i loro tormenti interiori e un’unione che si farà sempre più pericolosa con il passare dei minuti.La regia è efficace, così come un’estetica fotografica che gioca bene con i colori e con i contrasti tra le luci e le ombre: il risultato è un prodotto semplice e non memorabile, ma ben fatto e curato al punto giusto.Le suggestioni non mancano, anche dal punto di vista prettamente psicologico, e lo conferma un andamento sempre differente, che alterna sequenze di grande calma a momenti fortemente dinamici e violenti in una girandola emotiva che rappresenta adeguatamente l’età che il film ha scelto di raccontare.

Mother Lode

Una menzione positiva va anche a «Mother Lode» di Matteo Tortone, film che inizia questa settimana un tour che lo porterà a essere proiettato in buona parte della penisola.Al centro della storia c’è Jorge, che lascia la sua famiglia e il suo lavoro di mototaxi nei sobborghi di Lima per cercare fortuna nella miniera più elevata e più pericolosa delle Ande Peruviane. Isolata su un ghiacciaio, La Rinconada, è “la città più vicina al cielo”: qui arrivano ogni anno migliaia di lavoratori stagionali attratti dalla possibilità di far fortuna, nella speranza di una vita migliore.Presentato a Venezia alla Settimana Internazionale della Critica e vincitore del titolo di miglior film nella sezione EXTR’A del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano, «Mother Lode» è una delle sorprese italiane della stagione: un film di grande maturità artistica, dotato di un’estetica elegante e in cui la scelta del bianco e nero dona ancora maggior fascino all’intera operazione.Ricco di elementi simbolici e di riflessioni che rimangono dentro di noi al termine della visione, questo film è un vero e proprio viaggio immaginifico, pieno di premonizioni e di spunti relativi al mito della ricchezza.Una pellicola di casa nostra anticonvenzionale e coraggiosa: da vedere.

Fonte: Il Sole 24 Ore