D’Alì, il potere a disposizione dei boss di Cosa nostra da Matteo Messina Denaro a Totò Riina

L’ex senatore di Forza Italia Antonio d’Alì per decenni ha messo a disposizione di Cosa nostra, e dei suoi esponenti di spicco come Totò Riina e Matteo Messina Denaro, le sue energie personali, le sue attività imprenditoriali e le proprie elevate funzioni pubbliche. Con queste le motivazioni la Corte di cassazione, ha reso definitiva la condanna a sei anni di carcere – disposta nel processo bis di appello, il 13 dicembre scorso – nei confronti di d’Alì, per concorso esterno in associazione mafiosa. La Suprema corte in 24 pagine ricostruisce i rapporti dell’ex senatore e sottosegretario del ministero dell’Interno con i più pericolosi esponenti della mafia. Per i giudici – e la data è importante ai fini di una prescrizione la cui dead line è fissata al 2032 – d’Alì ha concluso nel 2001, dopo una già ventennale disponibilità verso il sodalizio mafioso «un patto (l’ennesimo) politico-mafioso, con Cosa nostra in forza del quale il sodalizio gli ha garantito l’appoggio elettorale che ha consentito all’imputato – si legge nella sentenza – di essere nuovamente eletto in Senato, elezione che ha poi costituito il viatico per l’acquisizione dell’incarico di Sottosegretario al ministero dell’Interno».

L’aiuto di Cosa nostra

Ad avviso della Cassazione regge l’ordito della sentenza dell’appello bis secondo la quale le fortune politiche di D’Alì, sono state in parte costruite grazie allo scellerato patto con la mafia. Il politico ha messo sul piatto, come merce di scambio, le sue energie personali, come avvenuto nella vicenda del fondo Zangara, relativa all’accusa di aver ceduto i terreni che la famiglia D’Alì possedeva in contrada Zangara (Castelvetrano), in favore, di Francesco Geraci, prestanome di Salvatore Riina, su espresso mandato di Matteo Messina Denaro, il cui padre, per un incrocio di destini, era il custode dei terreni della famiglia d’Alì.

L’asservimento del potere al clan

Nel mirino degli inquirenti erano finito anche l’asservimento delle attività imprenditoriali, con la banca Sicula, fondata dalla famiglia d’Alì, nella quale sarebbe stato riciclato il denaro della mafia. Il baratto – ricordano i giudici – ha comportato anche il trasferimento di un prefetto «dopo averlo minacciato per compiacere i piani di egemonia economica del capomafia di Trapani (Vincenzo Virga, ndr) ». Nel curriculum di d’Alì c’è, infatti, anche l’impegno per vanificare gli sforzi delle istituzioni di aiutare la Calcestruzzi Ericina a vantaggio di Cosa nostra, adoperandosi per il trasferimento del prefetto Sodano, il cui operato danneggiava gli interessi del clan

Un appoggio ventennale

Per i giudici D’Alì si candidò al Senato con l’appoggio della mafia, in virtù di una disponibilità che il sodalizio aveva apprezzato e gradito nell’arco di un ventennio. Non c’è dunque ragione di ritenere che la stessa “benevolenza” l’ex senatore non l’abbia dimostrata dal 2001 al 2006, anno che consente di far rientrare le condotte nella nuova legge sulla prescrizione, del 2005, spostando davvero in là la data che avrebbe consentito all’imputato di chiudere i conti con la giustizia. A pesare nel processo anche la testimonianza del pentito Vincenzo Sinacori che aveva rivelato il legame tra Messina Denaro e l’ex senatore «che io sappia il Virga, se aveva bisogno di qualcosa dai D’Alì – aveva detto Sinacori – si rivolgeva ai Messina Denaro perché era risaputo che i Messina Denaro con i D’Alì erano in buonissimi rapporti».

Fonte: Il Sole 24 Ore