L’apartheid c’è ancora: è quello delle donne afgane – L’appello

L’apartheid non è finito nei primi anni Novanta, esiste ancora nel XXI secolo e riguarda la metà della popolazione afgana, venti milioni di persone: le donne. «Gender apartheid» lo chiama un gruppo di leader afgane e iraniane in esilio, che insieme ad avvocati internazionali e altri attivisti chiede che venga finalmente riconosciuto, che la definizione dell’ apartheid nel diritto internazionale venga interpretata in modo tale da includere le gerarchie di genere, e non solo quelle etniche.

L’appello (https://endgenderapartheid.today), lanciato durante il Festival du film et forum international sur les droits humains di Ginevra (Fifdh), la più importante rassegna al mondo dedicata ai diritti umani, si rivolge a tutti noi affinché venga fatta pressione sui governi per far sì che, quando all’inizio di aprile si riunirà a New York la 78 sessione dell’assemblea generale per redigere la nuova convenzione sui crimini contro l’umanità, venga incluso anche lo specifico crimine di «gender apartheid», che attualmente non è preso in considerazione.

Un termine già utilizzato dalle donne afgane quando i talebani presero il potere per la prima volta, dal 1996 al 2001. «Non ci consideriamo vittime anche se siamo state sacrificate» affermano alcune politiche, avvocate, giornaliste e attiviste del Paese nel bel documentario An unfinished journey, di Aeyliya Husain e Amie Williams, proiettato in anteprima mondiale al Fifdh di Ginevra, che documenta la lotta di quattro dirigenti afgane in esilio, Nargis Nehan, Homaira Ayubi, Nilofar Moradi, Zefnoon Safi, per cercare di mantenere l’attenzione del resto del mondo sulla sorte delle afgane, dopo che – con la partenza delle truppe americane – il 15 agosto del 2021 è caduta Kabul e i talebani hanno nuovamente preso il potere, privandole dei diritti fondamentali.

«Riaprire le scuole, in modo che le ragazze possano tornare a frequentarle, consentire nuovamente alle donne di lavorare, permettergli di muoversi liberamente»: sono questi i diritti più urgenti da ripristinare, secondo Nargis Nehan, ex ministra afgana, ora in esilio in Canada. Era presente alla première ginevrina e suoi occhi, alla fine della proiezione seguita da un lunghissimo applauso del pubblico, si sono riempiti di lacrime, così come quelli di molte persone in platea.

«Se un uomo è istruito cambia solo sé stesso, se una donna è istruita può cambiare una famiglia», «Se le donne non lavorano, che ne è di loro?», «Le donne sono le abitanti dell’Afganistan più progressiste», sono alcune delle frasi pronunciate nel documentario che mostra l’uccisione di leader rimaste in Afganistan, la paura e la sofferenza delle ragazze che si sono viste togliere tutti i diritti, persino quello di andare a scuola, le donne che manifestano a viso scoperto contro i talebani, nonostante tutti i pericoli che corrono, perché si veda la loro rabbia, e la vita piena di malinconia e apprensione per chi è rimasto in patria di chi ha voluto e potuto scappare. «Negli accordi di Doha non c’è neppure un cenno alle donne!» esclama Nehan, riferendosi al trattato di pace del 2020 tra la fazione afghana dei talebani e gli Stati Uniti guidati da Donald Trump che ha portato al ritiro degli americani dall’Afghanistan e al conseguente colpo di stato che ha rovesciato il governo democratico.

Fonte: Il Sole 24 Ore