Lo smart working cambia la comunicazione aziendale: tra sicurezza e informalità

Aziende più liquide e organizzazioni flessibili, uffici sempre più smaterializzati e lavoro da remoto, processi che si (ri)modellano rispetto a nuove logiche di servizio e di comunicazione/relazione: la società del “new normal” è fatta di diverse sfaccettature che aumentano la complessità di gestione degli asset digitali. Se il 2020 sarà ricordato, soprattutto in ambito business, come l’anno delle riunioni in videoconferenza e delle app messaggistica, i prossimi dodici mesi imporranno agli strumenti di collaborazione un nuovo salto in avanti per essere sempre più aderenti alle attività che caratterizzeranno la quotidianità professionale.

E con l’aumentare dell’utilizzo di questi strumenti cresce anche il “peso specifico” delle informazioni che gli utenti si scambiano online in modo istantaneo, portando ancora una volta al centro dell’attenzione il tema della sicurezza e dell’accessibilità dei dati (dell’azienda e dei propri clienti). Ne abbiamo parlato con Luigi Fidelio, co-founder e Chief Marketing Officer di Messagenius, scaleup italiana della cybersecuirty specializzata nel campo dei sistemi di messaggistica istantanea di classe enterprise.

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Cambiano i modelli di lavoro, cambiano i modelli di gestione degli asset fisici e digitali: c’è una strada da seguire?
La diffusione del remote working ha certamente spostato i valori degli asset funzionali al lavoro e ne ha riscritto i fondamentali. Gli asset si stanno riformulando, anche nell’ibridazione dell’esperienza phygital, così come si sono evoluti i parametri per qualificare un fattore come business-critical. Il modello di lavoro “on-line first” ha creato un nuovo cluster di dati, che comprende tutti quelli prodotti nelle interazioni quotidiane tra colleghi, negli scambi di proprietà intellettuale, nelle interazioni con i clienti. Si tratta di attività ordinarie che generano valore, da riconoscere e mettere al sicuro. Per gestire in modo adeguato gli asset digitali, le aziende devono assumersi il rischio di sperimentare di più, poiché si sta riscrivendo il paradigma.

Anni fa imperversava il fenomeno Bring your own device (Byod), poi è finito in un cassetto: la pandemia l’ha riscoperto con il remote working?
Il Byod è stato nascosto sotto la scrivania per troppo tempo, con tutti i problemi tipici della commistione tra sfera professionale e privata, per di più su dispositivi molto presenti nella quotidianità di ogni individuo. Consentire agli impiegati di utilizzare device personali per lavorare ha spalancato le porte alle tecnologie non espressamente approvate in azienda, ma comunque informalmente adottate o tollerate, e tante organizzazioni hanno silenziosamente sconfessato policy interne da loro stesse prodotte. Il remote working tenderà naturalmente verso il vero smart working, con ciò che ne deriva in termini di gestione del tempo e degli spazi. E in tema di Byod se ne sono già visti gli effetti, poiché essere costretti a casa rischia di moltiplicare i touchpoint.

Esiste un nesso fra la sicurezza dei dati e le competenze digitali di chi lavora in smart working?
Si tratta di un nesso culturale, più che di competenze tecniche, che deve funzionare a livello aziendale, non solo individuale. Questa considerazione muove da premesse normative e operative: i dati aziendali hanno un valore enorme e ogni organizzazione ha l’obbligo di proteggerli con policy e strumenti adeguati. Se i lavoratori, e quindi coloro che sono più direttamente a contatto con gli snodi dell’operatività, esprimono il bisogno di strumenti digitali che amplificano efficienza e produttività, le aziende devono fornire tool adeguati allo scopo e definirne l’uso nelle policy interne. Le alternative, cioè ignorare le richieste del personale o favorire con disinvoltura l’uso di app di messaggistica consumer, sono ricette disastrose per la sicurezza dei dati.
Tre parole (spiegate) per definire la nuova frontiera della collaborazione aziendale
La sicurezza, e la proprietà dei dati, è la prima. Le aziende non possono permettersi di affidare le loro comunicazioni quotidiane a colossi che tengono le mani sui dati e che non hanno scrupoli nel sovvertire le loro policy unilateralmente. Ne va degli interessi strategici delle aziende stesse e della loro indipendenza. Poi i processi: l’approccio manageriale “il mio team sta lavorando, li vedo tutti in ufficio” non può passare a “il mio team sta lavorando, li vedo tutti online sulla messaggistica”. Occorre ridisegnare i modelli di comunicazione affinché possano rendere davvero più efficace ed efficiente il lavoro da remoto. La terza parola è informalità. La pandemia ci ha detto che per comunicare i convenevoli sono ridotti al minimo e si va dritti al punto, con le emoji che valgono come un sì o un no. Meno formalità, quindi, e maggiore attenzione al contenuto e alla produttività.

Fonte: Il Sole 24 Ore