Per guidare le aziende del new normal serve un manager nuovo

L’identikit del manager post pandemia? Ricco, indubbiamente ricco, di attributi: competenze, carisma da leader, capacità di gestire team eterogenei e complessi, apertura verso le componenti di diversity e inclusion e del bilanciamento tra vita professionale e vita privata. Tante qualità da miscelare fra loro per poter timonare al meglio aziende sempre più votate ai dogmi dell’agilità, della velocità e della flessibilità. Un addetto su due dichiara infatti di voler cambiare lavoro entro l’anno e i principali motivi alla base di questa intenzione sono il work-life balance, le politiche di welfare aziendale e le aspettative di crescita professionale: è una tendenza che interessa praticamente tutti i settori, e in particolare quelli a maggior attrattività come il comparto energetico.

È quindi uno scenario complesso quello che si prospetta ai leader, chiamati da una parte a garantire la continuità di impresa e la marginalità del business e dall’altra a rimodellare la struttura organizzativa gestendo figure professionali (giovani e non) oggetto di un profondo processo di revisione della propria carriera.

Cambiando radicalmente il modo di lavorare, ai leader del new normal è richiesta grande capacità di adattamento e in particolare tre qualità per essere considerati dei buoni manager: visione chiara dell’azienda e del business (oltre che del mercato), preparazione, capacità di ascolto. Ne abbiamo parlato con Federico Mataloni, Senior Partner di Executive Hunters, brand di Hunters Group.

L’incapacità di riconoscere i nuovi “desideri” dei propri addetti è uno dei motivi per cui alcune aziende stanno pagando a caro prezzo la “great resignation”?
Il fenomeno delle grandi dimissioni non è imputabile unicamente alla gestione di manager spesso inadeguati, ma a una crisi più profonda dell’imprenditoria, che ha selezionato e inserito tali figure in ruoli apicali, e a una carenza di visione e progettualità sul lungo periodo. L’emergenza pandemica, unita all’accelerazione della trasformazione digitale, ha portato come diretta conseguenza una rivoluzione dell’organizzazione del lavoro e dei processi produttivi. Il processo di cambiamento è ormai irreversibile, ma non tutte le aziende lo stanno comprendendo e facendo proprio. Il motivo che sta portando alle grandi dimissioni si può quindi riassumere in uno scollamento tra desideri ormai endemici dei lavoratori e il mancato feedback da parte delle aziende.

È d’accordo con chi sostiene che la soluzione per risolvere questo problema sia legato all’incontro intergenerazionale all’interno dell’organizzazione?
Negli ultimi anni, molti manager ed analisti hanno affrontato il tema dell’approccio al mercato del lavoro delle nuove generazioni Y e Z con un giudizio critico e di condanna. Quello che appare a una lettura superficiale come una carenza di impegno e responsabilità è in realtà la conseguenza di una totale assenza di progettualità e di prospettiva, che crea inevitabilmente una disillusione e un sentimento nichilista. La mancanza dei valori imputata ai giovani, a mio parere, è invece da attribuire a un problema di comunicazione e di visione sul lungo periodo. Lo dimostra quella fetta di imprenditoria italiana che ha preferito svendere molte eccellenze a fondi stranieri, piuttosto che garantirne la successione interna.

Fonte: Il Sole 24 Ore