Regeni, l’efferatezza del crimine non giustifica deroghe al giusto processo

Il perseguimento delle condotto criminose, anche se efferate e ignominiose come quelle al centro del processo per la morte di Giulio Regeni, non giustifica, una deroga alle regole del Giusto processo. E in uno Stato di diritto un processo equo passa per un pieno ed effettivo contraddittorio tra le parti. Queste le motivazioni, depositate oggi, alla base della sentenza con la quale la Cassazione, il 15 luglio scorso ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Roma, e avallato la decisione del Giudice per l’udienza preliminare che ha disposto la sospensione del procedimento su Regeni, per effettuare nuove ricerche degli imputati a cui notificare gli atti. Al centro delle indagini degli inquirenti italiani i quattro 007 egiziani imputati per l’omicidio del ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto nel 2016.

Clamore mediatico non basta per la conoscenza

Ma ad avviso dei giudici non ci sono prove sufficienti del fatto che, malgrado il clamore mediatico, gli accusati siano al corrente del processo a loro carico. La giustizia italiana, precisa la Suprema corte, è dunque tenuta «ad applicare senza strappi il tessuto normativo, garantista e rispettoso dei diritti di tutte le parti processuali» e il superamento della situazione che impedisce la partecipazione degli imputati al processo «appartiene alle competenti autorità di governo, anche alla luce degli obblighi di assistenza e cooperazione».

La paralisi processuale

Una “pretesa” paralisi processuale sul caso Regeni che – sottolineano i giudici di legittimità non deriva dai provvedimenti giudiziari esaminati ma da fattori esterni al processo. La Corte di cassazione sgombra anche il campo dai dubbi di costituzionalità sollevati «dal Procuratore generale requirente in riferimento agli articoli 420-bis, comma 2, ultimo periodo, e 420-quater codice di procedura penale, nella parte in cui prevede la sospensione del processo, si sostiene, anche in caso di impossibilità non reversibile di notificare l’avviso dell’udienza all’imputato, che abbia comunque acquisito conoscenza del procedimento o si sia volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo, cui consegue una situazione di paralisi processuale per un tempo indefinito – si legge nella sentenza – La questione, infatti, da un lato presuppone che gli imputati abbiano comunque acquisito conoscenza del procedimento o si siano sottratti alla conoscenza dello stesso procedimento o di suoi atti, dato questo escluso nel presente giudizio. D’altro lato, tende a provocare il superamento dell’attuale sistema». Un sistema, ricorda la Suprema corte che è frutto «di lunga e progressiva elaborazione normativa e di consolidata interpretazione giurisprudenziale, anche in sede europea, maturate proprio al fine di renderlo conforme alle esigenze convenzionali e costituzionali» .

Le qualifiche degli imputati e il ruolo negli apparati

Per i giudici di legittimità non si presta a censure la valutazione della Corte d’Assise che, senza vizi logici ha escluso che per affermare la conoscenza degli imputati del procedimento mosso a loro carico, siano sufficienti le loro qualifiche all’interno delle forze di polizia o degli apparati di sicurezza egiziani. Nè basta la partecipazione di alcuni di loro al team egiziano, incaricato di collaborare con gli inquirenti italiani nel caso Regeni o il fatto che siano stati sentiti in quella sede come persone informate dei fatti in merito alle indagini svolte in Egitto. Per finire nessuna certezza può derivare dalla rilevanza mediatica, anche internazionale, del processo italiano.

Elementi che invece il Gup di Roma aveva posto alla base dell’ordinanza era dichiarata l’assenza degli imputati ai fini del loro rinvio a giudizio.

Fonte: Il Sole 24 Ore