Repubblica democratica del Congo, il giallo sul golpe e i tre cittadini Usa coinvolti

Un leader dell’opposizione in auto-esilio e un commando di uomini al suo seguito, inclusi tre cittadini Usa: suo figlio 21enne, un imprenditore condannato per traffico di marijuana e un terzo uomo noto solo per il suo (doppio) nome. È l’insolita squadra coinvolta nel tentativo di colpo di Stato che si è consumato lo scorso 19 maggio a Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, quando un gruppo di circa 50 uomini armati ha dato l’assalto alle abitazioni di alcune autorità e fatto irruzione nel Palais de la Nation: il palazzo che ospita gli uffici del presidente congolese Felix Tshisekedi , riconfermato dopo il voto tumultuoso dello scorso dicembre.

Il blitz, neutralizzato dalle forze di sicurezza, si è chiuso con un bilancio di sei vittime e decine di arresti. Sul campo è rimasto anche l’artefice del putsch, Christian Malanga, un politico di opposizione che risiedeva nello Utah (Stati Uniti) e si qualificava come «presidente del nuovo Zaire»: un governo di suo conio che avrebbe dovuto rappresentare il Paese in esilio, fondato a Bruxelles nel 2017 dopo un primo tentativo di insubordinazione nella capitale. Fallito, come quello che gli è costato la vita.

La parabola del «presidente» del nuovo Zaire

Malanga, 41 anni, viene descritto dai media internazionali come l’«eccentrico» leader di un governo e di un Paese definiti e riconosciuti solo da lui. Prima del golpe di domenica, il «Nuovo Zaire» era il culmine della parabola umana che lo aveva condotto negli Usa da bambino come richiedente asilo, di nuovo in patria come «ufficiale» fra i ribelli che pullulano nell’Est e quindi ancora negli Usa, nello Utah, dove dichiarava di aver «prosperato» e guidava un governo alternativo per Kinshasa. Altre biografie sono meno lusinghiere. Il cursus honorum ricostruito dall’agenzia Associated press riporta di una condanna per assalto con arma da fuoco nel 2001, una per violenze domestiche nello stesso anno e una terza, sempre per violenze domestiche, nel 2004. Nel 2010 fonda il Parti des Congolais Unis, un partito che si ispira al mobutismo e si propone come incubatore degli oppositori all’establishment «corrotto» di Kinshasa. Sette anni dopo arrivano il golpe e la fondazione, teorica, di quel «Nuovo Zaire» che riecheggia la dicitura voluta dall’ex dittatore di Kinshasa.

Il portavoce dell’esercito Sylvain Ekeng parla di Malanga come di un «naturalizzato» statunitense, ma non è chiaro quale sia il suo status effettivo. I tre cittadini americani coinvolti e confermati risultano per ora Benjamin Zalman-Polun, imprenditore della marijuana terapeutica con guai giudiziari alle spalle, un certo Taylor Thomson (nome interscambiabile con quello di Patrick Ducey) e il figlio 21enne dello stesso Malanga: Marcel, difeso dalla madre Brittney Sawyer come un «ragazzo innocente», condannato dall’aver «solo seguito il padre» in un’operazione che lo ha catapultato dagli studi a Salt Lake City agli arresti per la tentata sovversione a Kinshasa.

Falle nella sicurezza

Il golpe non ha destato troppe preoccupazioni per il suo modus operandi, ma fa emergere dubbi sulle falle nella sicurezza e il grado di reattività delle forze congolesi rispetto a un’operazione così raffazzonata. I putschisti che avanzavano al canto di «Stiamo venendo per te Felix (Tshisekedi, ndr)» sono riusciti a fare breccia nel Palazzo della presidenza e a bersagliare le abitazioni di figure di peso nel potere pubblico, un precedente che ha seminato qualche inquietudine sui filtri delle autorità rispetto a incursioni più strutturate. La Repubblica democratica del Congo, al cuore degli interessi internazionali per la sua ricchezza mineraria, è sospesa da mesi sull’orlo di un conflitto con i vicini di casa del Ruanda per gli scontri fra esercito regolare e le milizie M23: un gruppo che sarebbe foraggiato da Kigali e favorirebbe il contrabbando di metalli dalle miniere della provincia del Kivu. I due Paesi sono reduci da mesi di schermaglie che hanno alimentato una crisi umanitaria sempre più esasperata sui confini orientali, con oltre 2,5 milioni di sfollati registrati nella provincia del Nord Kivu e l’avanzata delle stesse M23 verso la capitale Goma. Il coup naufragato domenica potrebbe farsi dimenticare in fretta, ma gioca a sfavore della percezione di sicurezza di Tshisekedi. Una fragilità, l’ennesima, in un gigante che vacilla per le tensioni all’esterno e all’interno dei suoi confini.

Fonte: Il Sole 24 Ore