Tra stipendio e flessibilità, le strategie per trattenere i talenti in azienda

L’hanno definita, forse accentuando il concetto, una “rivoluzione invisibile”. È però indubbio che gli effetti legati al processo di trasformazione in atto nel mondo del lavoro siano tangibili e riflettano un cambio di paradigma evidente, che mette le persone al centro e i migliori talenti in una posizione di vantaggio. Questo, perlomeno, è lo scenario descritto dallo studio Talent Trends 2023 condotto dalla società di recruiting PageGroup su un campione di circa 70mila addetti aziendali di 37 Paesi del mondo, di cui oltre 5.700 italiani fra operatori con impiego full-time, imprenditori e liberi professionisti.

Le linee guida tratteggiate dall’indagine sono più o meno già note. Il livello di “loyalty” aziendale è diminuito mentre la spinta al cambiamento non viene meno anche quando le persone sono soddisfatte del proprio ruolo all’interno dell’organizzazione. La retribuzione resta la principale motivazione per intraprendere un nuovo percorso professionale e la prospettiva di una carriera di successo non è più la priorità, perché l’equilibrio tra lavoro e vita privata non è più negoziabile e la flessibilità non è più considerato un benefit ma un must-have.

Alle aziende e agli Hr manager spetta quindi il compito di interpretare le dinamiche di un mercato del lavoro sempre più “candidate-driven” e sono cinque, nello specifico, i punti chiave per ridisegnare in modo efficace la strategia di talent retention.

In Europa, la maggior parte dei dipendenti è aperta a valutare nuove opportunità di carriera, indipendentemente dall’età, dal sesso, dal ruolo attualmente ricoperto e dal settore di appartenenza. Il 92% degli intervistati italiani, nel dettaglio, prenderebbe in considerazione l’idea di cambiare lavoro e il 59% lo sta già cercando attivamente. Come puntualizza Tomaso Mainini, Senior Managing Director Italia & Turchia di PageGroup, «la fedeltà nei confronti dell’azienda quasi non esiste più o comunque è ormai un’eccezione. I professionisti specializzati possono valutare e confrontare più offerte e, in generale, le persone non pensano a rimanere a lungo nella stessa organizzazione ma si aspettano che la propria azienda pianifichi e condivida un percorso di carriera che permetta loro di evolversi e crescere professionalmente. Altrimenti, come conferma la ricerca, non esitano a rivolgersi altrove».

L’apertura degli addetti italiani al cambiamento, e siamo a un altro fattore da tenere in debita considerazione, non è dovuta solo all’insoddisfazione per il proprio lavoro: lo dimostra il fatto che ben il 37% degli intervistati si dichiari appagato delle proprie mansioni e in un caso su due anche del proprio stipendio, per quanto la predisposizione a cambiare per cercare opzioni migliori sia generalizzata e solo l’8% del campione tricolore assicuri che non si farebbe tentare in tal senso. Come leggere tale tendenza? Secondo Mainini «è un segnale che ci ribadisce come sia sempre più difficile attrarre, e soprattutto trattenere, i talenti. Anche quelli soddisfatti. I dati dimostrano che nella coscienza collettiva è avvenuta una profonda mutazione nei confronti del rapporto con il lavoro, che non rappresenta più una fonte di realizzazione personale: la priorità dei professionisti, oggi, è un equilibrio tra professione e vita privata molto più concreto, e non a caso questi soggetti sono alla ricerca di esperienze e di opportunità per acquisire competenze, piuttosto che un impiego a lungo termine».

Fonte: Il Sole 24 Ore