Covid, il “report fantasma” dell’Oms che mette a nudo le falle del sistema Italia

Si allarga il fronte dello scandalo internazionale sul report italiano dell’Oms, ritirato dopo solo 7 ore il 13 maggio 2020. L’inchiesta per epidemia colposa, coordinata dalla procura di Bergamo, ha messo in luce come l’autore del documento, il ricercatore Francesco Zambon, potrebbe aver subito pressioni dal vicario italiano dell’organizzazione, Ranieri Guerra, preoccupato delle ripercussioni politiche. Ora anche secondo la pm Maria Cristina Rota, l’Oms avrebbe accolto le indagini con «un muro di gomma», nel tentativo probabilmente di coprire presunte negligenze dello Stato italiano.

Le accuse del report nascosto

Cosa metteva in luce di tanto scabroso il rapporto dedicato all’Italia? C’era sì l’assenza del piano pandemico, fermo di fatto al 2006. Ma c’era anche la critica dei sistemi sanitari e del modello regionale; l’assenza di terapie intensive adeguate; l’aumento della gravità delle altre malattie a causa del collasso del sistema sanitario; il contagio negli ospedali e nelle Rsa (con l’aumento della mortalità soprattutto in Lombardia); l’assenza di adeguate protezioni come le mascherine. E persino l’aumento della violenza familiare.

Loading…

Terapie in tilt, medici contagiati

Un quadro impietoso, riassumibile in qualche passaggio significativo. «Nel 2006, dopo la sindrome Sars, l’Italia approvò un piano nazionale pandemico, confermato nel 2017, con le linee guida per le regioni. Più recentemente il virus H1N1/09 nel 2009 e l’Ebola nel 2014 hanno posto l’attenzione sui rischi di tale fenomeno… il nuovo piano tuttavia rimase più teorico che pratico, con pochi investimenti». L’epidemia, viene ricordato, ha avuto in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto il suo epicentro. Per quanto riguarda il tracciamento, Veneto e Emilia Romagna hanno potuto fare affidamento sulla loro rete sanitaria, mentre altre regioni come la Lombardia «hanno dovuto combattere per dare vita al tracciamento». Il Sud, viene precisato, ha solo avuto più tempo per prepararsi.

Dal primo caso di Codogno si comprese rapidamente che il vero problema erano le terapie intensive e «dopo pochi giorni il primo ospedale coinvolto non aveva già più letti ed è costretto a fronteggiare il trasferimento dei pazienti in altri ospedali». Prosegue: «Il 2 marzo sono ricoverati 2.036 pazienti, con 127 persone in terapia intensiva in Lombardia, 16 in Emilia Romagna e 14 in Veneto… I posti letto disponibili nelle regioni del Nord oscillano tra i 6 e i 12 ogni 100mila abitanti, mentre in Europa la media è di 12 ogni 100mila. C’erano in tutto 5.293 posti in tutta Italia durante il picco del 3 aprile, solo un mese e mezzo dopo 4.068 erano già occupati (con 29.010 ricoverati)». Tuttavia durante la fase di picco i posti in terapia intensiva sono stati aumentati rapidamente a 9.284. Il problema si è acuito con «gli operatori della salute diventati loro stessi un grande rischio di infezione. Si calcola che siano stati la causa fino al 10% dei casi di Covid. Tra l’11 marzo e il 30 aprile sono morti 153 dottori».

A causare il problema negli ospedali è stata prima di tutto «la mancanza di adeguate protezioni, fatto che ha esposto gli operatori del sistema sanitario ad eccessivi e evitabili livelli di rischio. Gli ospedali non avevano prodotti di protezione come guanti, mascherine, respiratori, occhiali, visiere, camici e grembiuli». Ancora peggio nelle Rsa, dove «il 40,2% dei morti è associato al Covid», con un aumento «in Lombardia fino al 6,7%».

Fonte: Il Sole 24 Ore