Dal tirocinante al contadino, è caporalato se la paga non libera dal bisogno

La Costituzione pretende una retribuzione che assicuri un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia. E per valutare il rispetto dell’equità e della dignità, garantiti dalla Carta, bisogna considerare la proporzione tra la retribuzione percepita e la qualità e la quantità del lavoro svolto. Un criterio che deve prevalere sulla contrattazione collettiva nel caso questa non l’abbia rispettato, e che va applicato anche a tutte le attività che sfuggono alla contrattazione collettiva, dai tirocini agli stages, fino al lavoro agricolo, sia o meno contrattualizzato.

L’autonomia delle parti sociali

L’autonomia delle parti sociali non può, infatti, «derogare al principio della retribuzione – si legge nella sentenza – quale soglia minima di dignità umana e sociale». Partendo da questi principi la Cassazione respinge il ricorso contro la condanna per il reato di caporalato (articolo 603-bis del Codice penale), unita alla confisca dei terreni, dove venivano impiegati cittadini africani. Decisioni entrambe contestate dagli imputati che negavano sia le condizioni di sfruttamento – perché la paga giornaliera era di 45 euro non troppo distante dai 51 prevista dai contratti di settore – sia la possibilità di sequestrare uno dei due terreni perché non di loro proprietà. Per la Suprema corte invece quanto stabilito dalla Corte d’Appello è corretto. E con l’occasione i giudici di legittimità, impartiscono una lezione di diritto del lavoro.

Il sequestro dell’azienda

La Cassazione smonta senza difficoltà l’argomento della difesa sulla ridotta disparità tra i salari, mettendo sul piatto della bilancia proprio la quantità del lavoro prestato. I lavoratori sfruttati lavoravano 9 ore al giorno, e non poco più di 6, per 3 euro l’ora, senza ferie, contributi, pause, ferie ecc. Dagli ermellini, via libera anche al sequestro, finalizzato alla confisca dei terreni, compreso un podere che non era di proprietà degli imputati. È, infatti, corretta la confisca di tutti i beni «che costituiscono il contesto materiale ed economico connesso al reato». Nel caso esaminato è evidente il collegamento diretto tra lo sfruttamento e l’azienda intesa come luogo fisico nel quale si sfrutta lo stato di bisogno dei lavoratori. Fatti salvi dunque i diritti delle parti offese e dei terzi, il sequestro può riguardare anche beni non di proprietà del datore di lavoro. Questo per evitare facili elusioni con intestazioni societarie o fittizie.

Fonte: Il Sole 24 Ore