Gucci porta la sua filosofia sotto la luna di Castel del Monte

La moda, nel breve termine, parla per iperboli sperticate. Incorona con facilità assoluta ed entusiasmo incondizionato i suoi geni e i suoi rivoluzionari. Poi la distanza storica fa il resto, e riequilibra. Sette anni di regno creativo e di successi stellari sono un periodo lunghissimo e insieme troppo breve per valutare l’operato di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, al di là dell’impresa, titanica e invero riuscita, di aver ricollocato Gucci nell’immaginario collettivo pop, diventando provider di camp e di intrattenimento.

Quel che è chiaro fino ad ora è che Michele non ha rivoluzionato le forme della moda, ma ne ha riscritto in modo permanente il racconto, influenzando l’intero sistema con una lingua affatto personale, citazionista e rizomatica, cangiante e nostalgica, profonda e superficiale, a sua volta facendosi influenzare dalla frammentazione inarrestabile e dall’antistoricismo del contemporaneo.

Ne è perfetto esempio il sensazionale show con il quale Gucci, sotto un magico plenilunio e sullo sfondo di Castel del Monte, è tornato lunedì sera alla pratica, sospesa causa Covid per due anni, delle sfilate itineranti in location mai viste. La stagione della collezione? Non importa definirla, come non importa definire il sesso dei vestiti. Basta sapere che tutto ciò andrà in negozio a novembre.

Nel racconto di Michele, il luogo è sempre della massima importanza, e i posteri avranno un bel valutare l’impatto positivo di queste azioni inattese e appassionate sulle sperdute pro-loco di siti italiani e non. Poi ci sono i vestiti: un catalogo infinito di citazioni, anche recentissime, oppure distanti e lontanissime. La prima impressione, in uno show di Gucci, è di familiarità, almeno per gli affamati di moda: silhouette, forme, ma anche trucco e parrucco, rimandano ad un immaginario condiviso che va dalle riviste patinate alle subculture codificate alle miniature persiane o medievali, messi insieme con la sventatezza che solo un modaiolo ossessionata dall’immagine e dunque attento solo alla superficie può avere.

La seconda impressione, infatti, è di implacabile fuori registro: i pezzi noti sono congiunti facendo a meno della consecutio temporum, ignorando il momento storico cui appartengono, e nulla torna, ma in questo non tornare tutto funziona. L’effetto è una sorta di ubriachezza, che sposta l’attenzione, appunto, dalla forma del vestito all’assemblaggio, dal cosa al come. Nella riscrittura del racconto della moda, Alessandro Michele include la parola, che è alta e affabulante. Nelle note che accompagnano questa collezione si citano addirittura Hannah Arendt e Walter Benjamin, indicati come autori di un pensiero che crea costellazioni pescando perle nel mare magno dei libri e del pensiero esistente.

Fonte: Il Sole 24 Ore