Il grande inganno di Tony D’Amato: non basta un bel discorso per motivare un team

Non voglio assolutamente dire che Velasco o Mourinho non siano dei grandi coach, o dei grandi comunicatori, anzi, imprese e risultati raggiunti parlano ampiamente per loro; voglio sottolineare invece, che ridurre il loro lavoro quotidiano con la squadra ad un frammento di un discorso sia semplicistico e distorsivo. Come se le performance, la motivazione e la determinazione delle squadre da loro allenate fossero il risultato di un discorso particolarmente carismatico. Come se bastasse la persuasione verbale ad accendere sofisticate e profonde leve motivazionali negli atleti professionisti da loro allenati. Non possiamo confondere la ciliegina, il discorso motivazionale, con la torta, il grande lavoro quotidiano di un allenatore con la propria squadra. Un lavoro fatto di scambio di energie, emozioni, vittorie, sconfitte, confronto, conflitto e tanto altro.

Se usciamo dal contesto sportivo e allarghiamo lo sguardo al mondo organizzativo, provate a immaginare quanto sarebbe bello se bastasse un discorso motivazionale alla Al Pacino per motivare noi stessi oppure dei collaboratori, magari stanchi e svogliati.

Questa narrativa che Pietro Trabucchi, nell’ottimo libro Opus, chiama del “motivatore magico”, ha erroneamente spostato l’accento dall’interno all’esterno, quando si discute dei meccanismi motivazionali. La motivazione è infatti per lo più intrinseca, una forza interiore che ci muove, a volte smuove, indirizza e sorregge mentre cerchiamo di raggiungere, tra una difficoltà e l’altra, i nostri traguardi e i nostri obiettivi.

E ai manager, ai leader, a chi gestisce team e persone, allora cosa rimane? Molto, anzi moltissimo.

Il manager deve coltivare, curare e proteggere un ecosistema relazionale e organizzativo dove le motivazioni dei singoli possano nutrirsi, affermarsi e risuonare con quelle degli altri.

Fonte: Il Sole 24 Ore