Il paradiso elettronico di James Blake

Unire l’utile al dilettevole: è quello che ha pensato il giovane studente James Blake quando ha presentato il suo Ep Klavierwerke come prova finale del secondo anno in composizione alla Goldsmiths University. L’intuizione è stata più che giusta perché, nell’istituto che annovera tra gli studenti del dipartimento di musica gente del calibro di John Cale, Malcom McLaren e Shirley Thompson, l’esame è superato a pieni voti. Chissà quanti degli esaminatori immaginavano di trovarsi di fronte al nome che sarebbe comparso nei dischi di Stevie Wonder, Travis Scott, Rosalía e Kid Cudi, che avrebbe prodotto brani di Kendrick Lamar, Beyoncé, Drake, Chance the Rapper, e che, per non farsi mancare nulla, sarebbe stato premiato con il Mercury Prize, l’Ivor Novello e il Grammy.

Eleganza e malinconia

James Blake si è guadagnato tutto questo mescolando eleganza e malinconia, sperimentazione e gusto pop. Lo ha fatto sin dal suo debutto discografico omonimo del 2011, una raccolta di brani disperati, eleganti ed eterei che oscillano tra minimalismo e avanguardismo orbitando attorno al nucleo dell’emotività. L’affascinante melancolia di Overgrown ha rafforzato lo stile del musicista, che in The Colour in Anything si è calato in atmosfere ancora più cupe. Pur non tralasciando l’impatto emotivo, Assume Form e Friends That Break Your Heart non hanno raggiunto i picchi qualitativi degli album precedenti. Adesso, con Playing Robots Into Heaven, Blake torna alle sue radici elettroniche e, allo stesso tempo, prosegue sull’onda delle serate Cmyk, un “club concept” con molti ospiti organizzato dallo stesso musicista e proposto in varie città.Il titolo del nuovo album è preso in prestito dal suo ultimo brano e descrive quella dimensione spirituale che le fredde macchine elettroniche riescono a creare in alcuni momenti: un ossimoro affascinante e coinvolgente.

Asking To Break introduce il disco come una pioggia estiva che si abbatte all’improvviso su di una caotica giornata. Il velluto del brano d’apertura si riversa subito nelle atmosfere da clubbing di Loading e in quelle più frastagliate di Tell Me. Fall Back è ammantata di un’oscurità ipnotica; He’s Been Wonderful è un bizzarro collage, Big Hammer una spirale labirintica, I Want You To Know riporta al dubstep dei primi anni dieci del duemila. La parte finale dell’album si adagia sugli esotismi di Night Sky, sull’intimismo caldo di Fire the Editor, su quello introspettivo di If You Can Hear Me per poi spegnersi nella didascalica title track.I live del tour sono stati costruiti per lasciare alle persone «la sensazione di essere venute a vedere qualcosa di veramente speciale, che forse non vedranno mai più nello stesso modo», come lo stesso Blake ha affermato. I brani di Playing Robots Into Heaven non potranno che impreziosirlo e renderlo, se possibile, ancora più spirituale, pur mantenendo intatta l’inquietudine che James Blake si porta dietro da sempre. Un’inquietudine empatica e affascinante che in questo album interseca l’umano, l’ultraterreno e le nostre automazioni sentimentali.

Fonte: Il Sole 24 Ore