Il progetto per la recidiva zero dei detenuti: creare un ponte tra carcere e società

Per ragioni di sicurezza e per garantire la certezza della sanzione afflittiva la nostra legge esclude dall’accesso al lavoro i condannati per i reati più gravi. Nondimeno, per la maggioranza dei detenuti, alcuni dei quali persino prossimi alla liberazione, l’accesso al lavoro è utile al loro reinserimento sociale, e quindi va favorito. Tuttavia c’è ancora una vocazione dell’intero sistema penitenziario volta alla custodia e alla sicurezza, e poco incline a gestire processi connessi al lavoro, anche per carenza di manager con specifiche competenze. E c’è la scarsa istruzione-professionalizzazione della popolazione detenuta. Il risultato è fin qui modesto: i 2608 detenuti coinvolti in processi produttivi, che fanno da ponte tra il carcere e la società, sono appena il 4% della popolazione carceraria. Almeno altri 15mila potrebbero aggiungersi a questa minuta pattuglia alle dipendenze di imprese e cooperative.

Nel 2022 sono 456 i datori di lavoro che hanno fatto richiesta di sgravi fiscali, assumendo 2275 detenuti, la metà dei quali fuori dal carcere. La quota di sgravi è cresciuta in un anno di un quarto, raggiungendo i dieci milioni di euro. Segno che qualcosa si muove. Ma si tratta ancora di progetti biunivoci, mai di sistema. Ci sono associazioni che stipulano accordi per portare il lavoro artigianale dentro il carcere e poi per avviare percorsi di qualificazione dei detenuti all’esterno. Ma manca una logica di rete che rappresenti per l’intera popolazione dei reclusi una prospettiva e insieme una speranza. La soluzione è portare in questa sfida il valore dei corpi intermedi, di cui il Cnel è la casa, far scendere insieme in campo la managerialità dell’impresa, la solidarietà del lavoro e la sussidiarietà del volontariato a sostegno dell’impegno del Ministro della giustizia, per aprire un’istituzione chiusa alla comunità.

Il patto per i detenuti

L’intesa tra Ministero della Giustizia e Cnel è un patto di corresponsabilità con cui ciascuno dei due soggetti istituzionali assume compiti specifici. Il Ministero si impegna a snellire gli adempimenti per le imprese e le società del terzo settore che intendano assumere e formare i detenuti, semplificando anche la concessione di agevolazioni, incentivi e sconti fiscali. Il Cnel da parte sua coinvolge i corpi intermedi, e cioè datori di lavoro, sindacati e associazioni del terzo settore, con l’obiettivo di fare da ponte tra il carcere e il lavoro, fornisce supporto giuslavorista con i suoi esperti, implementa la formazione dei detenuti in carcere, d’intesa con il Ministero competente e la conferenza dei rettori promuove la copertura degli istituti penitenziari rispetto all’offerta di corsi universitari, studia i fabbisogni occupazionali per orientare la stessa formazione all’interno dei carceri, pianifica una campagna informativa, anche attraverso open day e sportelli dedicati, sugli incentivi e i benefici fiscali previsti per chi dà lavoro ai detenuti. A coordinare queste attività sarà un “Segretariato Permanente”, istituito presso il Cnel e chiamato a dare impulso e coordinare la rete istituzionale dei soggetti pubblici centrali e locali coinvolti nel progetto, le parti sociali e il terzo settore. L’obiettivo è quello di arrivare a un vero e proprio hub di riferimento a livello territoriale micro e di prossimità per la costruzione, lo sviluppo e l’implementazione progressiva di veri e propri poli di inclusione lavorativa di detenuti ed ex detenuti, cui ricondurre la gestione operativa degli accordi e dei protocolli di intesa, la definizione di programmi e corsi di formazione professionale in accordo con regioni, province e comuni, la costituzione di punti unici di accesso per le imprese che vogliano accedere ai benefici e alle agevolazioni previste o programmare investimenti produttivi in siti carcerari, riconnettendo così le attività promosse dalle Regioni a quelle del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dalle forze sociali e del terzo settore nel suo complesso.

Il binomio vincente

L’istruzione e la formazione sono parimenti centrali per il successo di questo progetto. Perché i dati, peraltro parziali in quanto riferiti a poco più della metà della popolazione carceraria , ci dicono che il 57 % dei detenuti è in possesso della sola licenza media, il 17 % ha completato la scuola elementare, una quota non trascurabile pari al 6% risulta analfabeta o comunque priva di qualunque titolo di studio. Solo il 17% dei detenuti si colloca nella fascia media dell’istruzione, avendo conseguito il diploma di scuola superiore, e meno di 600 sono i laureati, in proporzione l’un per cento dell’intera popolazione carceraria. Questa distribuzione racconta la mappatura sociale di una popolazione altra rispetto a quella generale, il cui ritardo incide sulla stessa efficacia dei percorsi formativi. Non è un caso che solo il 31 % dei detenuti sia iscritto a un corso scolastico, ma soprattutto che meno della metà di loro abbia ottenuto nel 2022 una promozione. Migliori sono i risultati della formazione professionale. Secondo una rilevazione della sezione di statistica del Dap, nel 2022 l’83% dei partecipanti a uno dei 380 corsi professionali svoltisi nelle carceri italiane ha conseguito il diploma. Ma si tratta sempre un numero esiguo di detenuti coinvolti, poco più di quattromila, meno del 10% dell’intera popolazione carceraria, e peraltro in calo rispetto ai decenni precedenti. Un percorso di studi e di formazione è di complemento al lavoro. L’impegno è di costruire una relazione virtuosa tra carcere, impresa e istruzione. Per esempio informatizzando tutti gli istituti di pena e collegandoli, attraverso accordi nazionali, alle scuole e alle università, per consentire ai detenuti la frequenza a distanza delle lezioni.

La geografia sociale qui descritta e i ritardi accumulati fanno più urgente la sfida che Ministero della Giustizia e Cnel hanno deciso di giocare insieme. Nella convinzione che anche un solo risultato numericamente parziale di concreta risocializzazione avrebbe un impatto decisivo sul fenomeno della recidiva. Dimostrando nei fatti quanto la lungimiranza dei padri costituenti aveva ben compreso: la rieducazione non è un retaggio del perdonismo cristiano, che promuova l’indulgenza come un dovere di fede. E neanche del sociologismo ideologico, che scarichi sulla società le responsabilità individuali. Ma è piuttosto il più efficace strumento di politica criminale a disposizione dei governi. Poiché la rieducazione restituisce alla comunità cittadini redenti e risocializzati, ma soprattutto interrompe la trasmissione e il contagio della tendenza a delinquere tra le generazioni, scongiurando l’ereditarietà della devianza.

Fonte: Il Sole 24 Ore