Aumentare le vendite, l’efficienza o la sostenibilità ambientale? Senza data maturity è una missione (quasi) impossibile

I dati sono una risorsa strategica per guidare il progresso economico e sociale di un sistema Paese. Tutti, governi compresi, sono allineati a questo assunto, peccato che la mancanza di “data maturity” costituisca un serio ostacolo (sia in ambito privato che pubblico) per il raggiungimento di obiettivi chiave. A lanciare l’allarme è una ricerca internazionale condotta da YouGov per conto di HPE (Hewlett Packard Enterprise) su un campione di oltre 8.600 decision maker di aziende attive in tutti i settori. Il dato che dovrebbe indurre a una seria riflessione i leader di imprese e istituzioni è il seguente: la capacità di creare valore dai dati delle organizzazioni si attesta a un valore medio di 2,6 su una scala di 5, e solo il 3% delle aziende che hanno partecipato alla ricerca raggiunge il livello di maturità più elevato. Alla base di questo gap, spiegano gli autori dello studio, vi sono fattori vario genere (anche di ordine tecnologico) e fa abbastanza specie rilevare come la maggior parte degli intervistati (il 62% nel complesso, il 63% in Italia) ritenga strategicamente importante per le proprie aziende controllare i propri dati e gli strumenti per creare valore dai dati stessi. Come dire: le buone intenzioni non mancano ma manca (come spesso accade) la componente di execution. La necessità di liberare il potenziale dei dati per far progredire il modo in cui viviamo e lavoriamo è dunque reale, ma per fare questo, come puntualizza anche Claudio Bassoli ad di Hpe per l’Italia, “serve un cambiamento nelle strategie di trasformazione digitale delle aziende, serve mettere i dati al centro dei percorsi di ripensamento organizzativo per colmare le lacune attuali e consentire la collaborazione tra diverse ecosistemi di informazioni”.

Il primo problema: la mancanza di capacità gestione dei dati

L’analisi compiuta dalla multinazionale americana prende spunto da un modello di maturità sviluppato dalla stessa HPE che valuta la capacità di un’organizzazione di creare valore dai dati sulla base di criteri strategici, organizzativi e tecnologici. Il livello di maturità più basso viene definito “data anarchy” e in questo caso i pool di dati sono isolati l’uno dall’altro e non vengono analizzati sistematicamente per generare insight o risultati utili. Quando invece un’azienda raggiunge il livello più alto, chiamato “data economy”, è in grado di sfruttare strategicamente le informazioni in suo possesso per ottenere risultati di valore, sulla base di un accesso unificato a fonti di dati interne ed esterne che vengono processate con l’ausilio di sistemi di analytics avanzati e dell’intelligenza artificiale. Ebbene, il 13% delle 500 imprese italiane oggetto di studio si trova al livello di maturità inferiore e solo il 4% a quello più elevato, mentre il cluster più popolato è quello di mezzo (“data insight”), dove si colloca il 34% delle imprese. La mancanza di capacità di gestione e valorizzazione dei dati, a sua volta, limita la capacità di raggiungere obiettivi chiave come l’aumento delle vendite e dell’efficienza interna (succede nel 34% e nel 20% delle aziende italiane), l’innovazione (32%), il miglioramento dell’esperienza del cliente (23%) e della sostenibilità ambientale (17%).

I gap da colmare: budget, tecnologie innovative

Per sfruttare i dati come asset strategico lungo tutta la catena del valore, le imprese sono chiamate a mettere “ordine” nelle priorità legate alla gestione dei dati. Lo studio, in tal senso, evidenzia come solo il 13% dei decision maker intervistati affermi che la data strategy della propria organizzazione sia una parte fondamentale della strategia aziendale. In Italia, in particolare, il 33% dei manager conferma come non siano allocati budget per iniziative relative ai dati, mentre solo occasionalmente (e succede per un’azienda su cinque) vengono finanziate iniziative relative ai dati tramite i fondi destinati all’It. Meno di un terzo del campione nazionale (il 29% per la precisione), inoltre, conferma che la propria organizzazione sia focalizzata in modo strategico su prodotti o servizi data-driven mentre il ricorso a modelli basati su algoritmi di machine e deep learning interessa nel complesso solo un’azienda su due. Per l’analisi dei dati, il 34% delle imprese tricolori si affida infatti a fogli di calcolo mentre il 15% ricorre a strumenti di business intelligence e a report preconfezionati.

Il controllo sui dati in cloud

Il basso livello di data maturity, questa una delle conclusioni a cui è giunto lo studio, è spesso direttamente associato alla mancanza di un’architettura di dati e di analisi integrata, proprio perché i dati sono isolati in singole applicazioni o posizioni. Le aziende italiane sono affette da questo problema nel 39% di casi (la media globale è pari al 34%) e solo il 14% delle organizzazioni ha implementato un data hub centralizzato in grado di fornire un accesso unificato e in tempo reale ai dati. Un’altra questione a cui porre attenzione, infine, è il timore (sentito da un manager su due) di non poter generare valore dalle informazioni a causa del limitato controllo esercitato sulle stesse, visto e considerato che le fonti dati sono sempre più distribuite tra ambienti cloud ed edge. Non passa in tal senso inosservato come il 39% del campione globale e il 26% di quello italiano stia rivalutando la propria strategia cloud, vuoi anche per l’aumento dei costi dei servizi nella nuvola (voce citata dal 40% dei manager italiani), la necessità di avere un’architettura dati più flessibile (29%) e, per l’appunto, la percezione di un controllo troppo limitato sui propri dati (26%).

Fonte: Il Sole 24 Ore