Il mito pericoloso del «mollo tutto e seguo i miei sogni»

Da molti anni nel mondo del management consulenti e “guru” vari predicano la bellezza del cambiamento: cambiamento nella strategia delle aziende, nei modelli di business, nell’approccio professionale, nella mentalità delle persone. Cambiamento anche e soprattutto nei percorsi di carriera. Cambiare è bello. Cambiare fa bene. Orientatori, esperti, coach, direttori del personale incitano a non aver paura di rischiare, a lasciare il lavoro che non ci piace per abbracciare quello che ci appassiona e ci valorizza: “Quanto l’hanno pagata per rinunciare ai suoi sogni?” chiede George Clooney nel film “Tra le nuvole” ad un impiegato cercando di convincerlo che perdere l’attuale lavoro è una grande opportunità.

Negli ultimi anni si è affermato l’acronimo Yolo (You only live once) ad indicare una sorta di “diritto all’autorealizzazione”. Questo “vento culturale” che ritroviamo nei testi di molte canzoni (“La verità” di Brunori Sas la mia preferita) e nella sceneggiatura di tantissime pellicole di successo è uno dei fattori che spiega il fenomeno della cosiddetta “Great Resignation”, l’ondata di dimissioni e di abbandoni del lavoro che è stata intercettata dalle statistiche nelle economie sviluppate al tempo del Covid. In Italia avevamo bisogno di liberare la mentalità delle giovani generazioni dalla nostra storica predilezione per il posto fisso a vita.

Personalmente nella mia attività di coach e formatore mi sono sempre lasciato condizionare da questo “vento culturale” che considera sempre il cambiamento un “valore in sé”. Tuttavia analizzando i dati e ascoltando le storie dei miei clienti in tante aziende diverse comincio a pensare che questo innamoramento incondizionato per il “mollo tutto e seguo i miei sogni” può diventare una droga che non ci fa bene. Per spiegarlo faccio riferimento a quattro concetti: rimozione, illusione, discriminazione, fuga.

Illusione: Il “mollo tutto e seguo i miei sogni” si fonda sulla mitizzazione della felicità lavorativa. E come sappiamo bene la felicità al lavoro è un’illusione. Necessaria, fisiologica, utile ma pur sempre un’illusione. Molti di noi amano il celebre aforisma “scegli il lavoro che ami e non lavorerai mai un solo giorno”, ma la realtà che sperimentiamo è che il lavoro di tutti i giorni non è il paradiso in terra.

Più teorizziamo il cambiamento come strada da intraprendere di fronte all’insoddisfazione più ci convinciamo che esista il diritto alla felicità lavorativa, più viviamo il malessere dello scostamento tra mondo ideale e mondo reale. Insomma c’è il rischio di creare una generazione di lavoratori eternamente insoddisfatti, inquieti, precari, magari non in senso contrattuale ma in senso “esistenziale” (mi sento sempre di passaggio perché devo sempre inseguire la felicità). È facile stabilire un parallelismo tra questa dinamica nel mondo del lavoro e quella sentimentale nel mondo delle relazioni affettive.

Fonte: Il Sole 24 Ore