Rivoluzione Maneskin – Il Sole 24 ORE

“A vent’anni è tutto ancora intero”, cantava Guccini nel 1978 in quello che fu il duraturo Manifesto per i ventenni di allora (che cercavano vie di fuga dalle catene ideologiche degli anni di piombo) e poi di almeno due generazioni successive. “Eskimo”, una canzone country-folk, sullo stream del più longevo rivoluzionario del novecento musicale, Bob Dylan. A vent’anni i Måneskin sono esplosi come il mercurio di un termometro lanciato su un radiatore bollente. E’ successo tutto molto in fretta e non c’entrano Sanremo né l’Eurovision, anzi entrambi i Festival hanno ritrovato smalto in gran parte grazie a loro. “Vent’anni” è anche il titolo dell’ultimo brano di “Teatro d’Ira Vol.1”, idealmente un concept album (come usava nell’età dell’oro del rock progressive, cui nelle intenzioni i fab four si ispirano) che segna un passaggio nella nostra storia.

Nessuno ne parla, perché i cronisti musicali sono generalmente intenti a puntare lo sguardo e la penna sul fenomeno Måneskin, sul costume Måneskin, sul successo Måneskin. Tutte cose per cui non serve un quotidiano, bastano Instagram o Twitter. La critica musicale (che ad altre latitudini è ancora rappresentata da giganti come Greil Marcus e Ashley Kahn) è scomparsa dai quotidiani anni or sono. La cronaca dello spettacolo e del tempo libero si concentra sul copia-incolla da Instagram e al massimo traballa su domande retoriche che poco incidono sulle coscienze del lettore: questi giovani sono davvero rock? Suonano davvero qualcosa di nuovo? Come chiedersi se Dylan, che saccheggiò l’opera di Woody Guthrie e Pete Seeger, sia stato un autore inconsistente e poco innovativo per il solo fatto di aver fondato la sua musica sul repertorio musicale del periodo della Grande Depressione.

Fenomenologia

Se proviamo a passare dalla lettura del fenomeno alla fenomenologia (il modo con cui conosciamo ciò che si manifesta, ossia il fenomeno) dei Måneskin, possiamo porci qualche nuova domanda. Partiamo da “Vent’anni”, allora. Una canzone (il suo video è altrettanto importante) in cui c’è tutta la ragione di questo successo E tutta la qualità che ha contribuito a generarlo. “Vent’anni” gioca a fare la ballad rock mainstream ma nasconde altre poetiche, in particolare gli stilemi della canzone leggera e d’autore italiana, che a sua volta molto deve al folk-rock americano. L’elettrificazione forsennata non è la chiave del successo dei Måneskin, se facessero domani un album acustico sarebbero ancora più dirompenti. Perché hanno vent’anni e sono belli così, senza ritocco. Perché sono diversi, perché sono diventati in pochi mesi mainstream proprio evolvendo in aperto contrasto al dogma culturale darwinista (omologazione al gusto pop-trap dominante, al successo effimero a prescindere, ai denari, al potere, alle fatuità social).

Vediamo la questione dei testi, più o meno maturi

A vent’anni, il testo di una canzone deve essere urgente, non maturo. E perfettamente cucito, nella sua metrica, alla musica, con la cura di un sarto napoletano. E loro sono sarti in punta d’ago. Ora è il momento delle sliding Doors: i quattro sono già in cima alla curva gaussiana del successo, la scienza ci dice che scenderanno e poi (eventualmente) risaliranno. Auguriamoci, data l’importanza che potranno avere per la cultura del nostro ormai periferico Paese, che lo facciano portando nel mondo il nostro straordinario e misconosciuto patrimonio musicale del novecento e oltre (la canzone d’autore, anche quella folk, di cui si innamorò, tra i tanti, Leonard Cohen). Lo hanno fatto, a casa loro, rockstar come Springsteen (con le Seeger Sessions), popstar come Miley Cyrus (Backyard Sessions), icone del jazz come Bill Frisell (Nashville). I Maneskin hanno la qualità e il gusto per affrontare la nostra letteratura musicale e David, naturalmente più intonato della stragrande maggioranza delle popstar internazionali (per non parlare dei ragliatori trap), sa come usare la voce in modo (non s’offenda) saggio e maturo. Tutti sanno anche come usare il corpo in modo semanticamente consapevole e libero. Puro Zeitgeist, senza compromessi. Tanto che busseranno al fenomeno Måneskin a brevissimo il cinema (vedi Harry Styles), le librerie e le boutiques.

Eccola la rivoluzione Måneskin, che non ha nulla a che vedere con le eventuali novità (ma piuttosto con la qualità) di natura stilistica, estetica o poetica musicale. La rivoluzione i Måneskin l’hanno già fatta con i loro vent’anni, con il modo con cui si sono presentati al mondo. E con le circostanze che glielo hanno permesso. Ed è una rivoluzione giusta, che azzera almeno un decennio di omologazione di chi, a vent’anni, ragiona secondo i desiderata dei produttori di cinquanta, alla ricerca facile facile del consenso e del successo. I discografici di oggi, come le ombre (e come i cronisti musicali), si nutrono della paura per il rischio, la fobia verso l’immaginazione e verso tutto ciò che è diverso. Parole come identità, libertà e nuovo, che usiamo per pesare il valore e il talento dei Måneskin, hanno lama e manico intercambiabili e andrebbero usate il meno possibile. E sul tema del nuovo nella musica dei Måneskin, ricordiamo che, quando cambiamo il mondo, siamo sempre seduti sulle spalle dei giganti. Alla fine, l’unica domanda vera resta quella legata al loro destino: seguiranno (metaforicamente) il destino di Ettore, eroe ventenne che rinunciò a tutto (tranne all’eternità) per i suoi princìpi o faranno la fine di Buffalo Bill, eroe del Nuovo mondo che terminò la propria vicenda terrena, cinturone di scena e pistola a salve, al seguito del circo?

Fonte: Il Sole 24 Ore