In Biennale a Venezia premiata l’arte indigena e femminista

Ad accogliere i visitatori della 60ª Biennale d’Arte di Venezia, che apre il 20 aprile, c’è un Padiglione Centrale completamente trasformato, che dà il tono di tutta la manifestazione. Il bianco minimalista della facciata è stato ricoperto da un folkloristico murale brasiliano di Mahku, Movimento degli Artisti Huni, che narra il passaggio dal continente asiatico a quello americano attraverso lo Stretto di Bering e, in senso traslato, l’ingresso delle pratiche tradizionali del villaggio nel mondo dell’arte.
Anche all’interno del padiglione, così come nell’Arsenale, le due sedi della mostra internazionale curata da Adriano Pedrosa, ritorna la pittura che finora è stata definita “indigena”, che si affianca ad opere di nomi già noti al pubblico dell’arte internazionale, sia emergenti che affermati, ma sempre provenienti da luoghi al di fuori dell’emisfero occidentale. Ad esempio, l’angolano Kiluanji Kia Henda, rappresentato da Galleria Fonti, già nella collezione della Tate; Salman Toor, pakistano di base a New York e beniamino del mercato dell’arte; il giovane camerunense Victor Fotso Nyie, rappresentato da P420; il colombiano Iván Argote, rappresentato da Perrotin; o ancora la sua connazionale ultranovantenne Olga de Amaral, rappresentata da Lisson, che ad ottobre sarà alla Fondation Cartier di Parigi.
La combinazione si rispecchia nelle scelte della giuria composta da Julia Bryan-Wilson (Usa), presidente di giuria, Alia Swastika (Indonesia), Chika Okeke-Agulu (Nigeria), Elena Crippa (Italia), María Inés Rodríguez (Francia/Colombia), che ha assegnato i premi, tanto che il Leone d’Oro per la migliore partecipazione alla mostra è andato ad artiste indigene, il collettivo Mataaho Collective, formato dalle maori Bridget Reweti, Erena Baker, Sarah Hudson e Terri Te Tau, mentre il Leone d’Argento per un artista emergente è andato alla nigeriana Karimah Ashadu, già nota al pubblico della Biennale per la sua partecipazione alla mostra della Fondazione Inbetween Art and Film di Beatrice Bulgari durante la manifestazione di Venezia di due anni fa. Con il suo video «Machine Boys» e la relativa scultura in ottone, «Wreath» cattura attraverso la sua lente femminista la vulnerabilità di giovani uomini provenienti dal nord agrario della Nigeria, emigrati a Lagos e finiti a bordo di mototaxi illegali. La denuncia del patriarcato è oggetto della sua ricerca.

Per il visitatore, abituato ad altri codici linguistici, non è sempre semplice interpretare l’arte esposta in mostra, distinguendo quella che entra nel museo da quella che si incontra per le strade. Sono nuovi linguaggi davanti ai quali ci troviamo, che non vengono sempre approfonditi. Soprattutto nelle sale dei nuclei storici, dove viene rinarrata la storia dell’arte dal punto di vista globale, l’allestimento in stile quadreria non aiuta a comprendere l’opera degli artisti. Nonostante ciò, potrebbe essere un primo passo per l’inserimento di questi nomi nella narrazione del 900 e, quindi, nel mercato dell’arte anche del mondo occidentale. Soprattutto nell’Arsenale, tante sono le opere in tessuto o ricamate, spesso di artiste riscoperte, come quelle di Anna Zemánková, autodidatta come molti altri in mostra, che in vita ha ricamato un erbario di fiori fantastici che l’anno scorso sono state offerte a Paris+ par Art Basel dalla galleria Christian Bert e vendute bene a prezzi tra 35-40.000 €.

I Padiglioni nazionali

L’effetto è di una Biennale in cui prevale il colore, che investe anche i Padiglioni nazionali, che spesso riprendono i temi della Mostra Internazionale. Dalla decolonializzazione (Spagna, Serbia, Olanda, Egitto) all’arte indigena (Usa, Brasile) all’identità di genere (Usa, Svizzera) al femminismo (Albania) ai rifugiati e alle dittature (Austria).
Anche in questo caso è stata premiato il tema legato all’arte indigena, con il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale andato all’Australia con l’aborigeno Archie Moore. «L’artista – è scritto nella motivazione – ha lavorato per mesi per disegnare a mano con il gesso un monumentale albero genealogico della First Nation. Così 65.000 anni di storia (sia registrata che perduta) sono iscritti sulle pareti scure e sul soffitto, invitando gli spettatori a riempire gli spazi vuoti e a cogliere la fragilità intrinseca di questo archivio carico di lutto. In un fossato d’acqua galleggiano i documenti ufficiali redatti dallo Stato. Risultato dell’intensa ricerca di Moore, questi documenti riflettono gli alti tassi di incarcerazione delle persone delle Prime Nazioni. Con il suo inventario di migliaia di nomi, Moore offre anche un barlume alla possibilità di recupero».
Mentre una menzione è andata al Kosovo con Doruntina Kastrati sul lavoro femminile. Molti padiglioni hanno lavorato sull’architettura, retaggio di un passato legato al concetto di nazione, trasformando le loro facciate. Pensiamo alla Germania, che da sempre fa i conti con la sua architettura fascista, ma anche agli Usa, caratterizzati dall’installazione colorata di Jeffrey Gibson, alla Francia e Gran Bretagna sovrastati da schermi. Il video è dominante e presente in moltissimi padiglioni, contribuendo in molti casi alle lunghe code. Pensiamo all’Egitto con Wael Shawky, alla Gran Bretagna con John Akomfrah, alla Germania con una delle due artiste, Yael Bartana, alla Francia con Julien Creuzet, alla Polonia con Open Group e tanti altri.

L’Italia, invece, ha giocato sull’esperienza sonora in tre ambienti meditativi di Massimo Bartolini. Una simile esperienza e struttura caratterizza il Padiglione dei Paesi Scandinavi, che pure risulta trasformato anche al suo esterno. Dopo tante polemiche il padiglione di Israele è rimasto chiuso per scelta dei curatori e dell’artista, Ruth Patir, e aprirà solo quando sarà raggiunto un accordo sul cessate il fuoco e sulla liberazione degli ostaggi. Ciò non ha fermato le proteste, che si sono raccolte anche davanti al Padiglione tedesco che ospita l’israeliana Yael Bartana.

Le menzioni

La Giuria ha poi deciso di assegnare due menzioni speciali: a Samia Halaby (Gerusalemme, Palestina, 1936) artista, insegnante e attivista di lunga data, che vive a New York, per Il suo dipinto modernista, intitolato «Black is Beautiful» nel Nucleo Storico, che rivela il suo impegno nella politica dell’astrazione sposata con la sua costante attenzione alla sofferenza del popolo palestinese.

Fonte: Il Sole 24 Ore