Momentum: la biennale norvegese risponde alle sfide attuali

C’è voluta tutta la buona volontà e una certa determinazione norvegese, pronta ad affrontare intemperie ed ostacoli naturali, per realizzare Momentum 11 e aprirla al pubblico a Moss nel corso della difficile estate 2021 (il 12 giugno). Solo da poco le restrizioni ai viaggi hanno permesso ad un pubblico Internazionale di visitare una ventina di lavori selezionati installati in diverse location su un isola ad un’ora da Oslo, limitando per un paio di mesi la presenza ai soli locali. E il sole lungo della fine estate ci ha permesso di godere al meglio delle installazioni esterne, che interagiscono con un paesaggio pastorale dipinto più volte da E dvard Munch e tuttora rimasto quasi intatto.
Certo i problemi posti dai curatori e artisti partecipanti alla biennale sembrano lontani da questo luogo: deterioramento climatico, tensioni politiche internazionali, soprattutto, post-coloniali, identità di genere e diritti umani…
Ma il titolo dell’evento ‘House of Commons’ ci ricorda come tutti siamo inevitabilmente toccati e chiamati a fare la nostra parte, se non altro partecipando ai processi politici.

L’organizzazione e le problematiche

Il direttore di lungo corso della biennale, nata nel 1998, Dag Aak Sveinar non ci nasconde le difficoltà incontrate nel coinvolgere un team internazionale in tempi di Covid, che sono culminate con la rottura del rapporto col curatore basato in Francia Theo-Mario Coppola, ed il conseguente ritiro di diversi artisti fra cui anche l’italiana Marinella Senatore. Ma la struttura di finanziamenti pubblica della Galleria (non commerciale) e dell’evento hanno fatto prevalere la decisione di continuare, grazie all’affiancamento del team curatoriale interno alla Gallari F15, anche perché una delle finalità dell’evento è di fungere da polo di attrazione per l’area, facilmente raggiungibile da oltre un milione di persone che animano la capitale norvegese ed il lungo fiordo in cui è situata, dando così vita ad un sito ex agricolo del 1860. Almeno cinque persone locali lavorano permanente alla produzione di Momentum.

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Gli artisti e i medium

Alla fine sono 20 gli artisti partecipanti, 17 nel sito ottocentesco di Alby, sede della Galleri F15 dal 1967, di cui quattro in località esterne nelle vicinanze, tutte sull’isola di Jeloya, allestite dallo studio di architettura S-AR tramite padiglioni temporanei in legno locale. A questi si aggiunge il designer italiano Federico Barbon, autore del logo della Biennale. Solo due artiste norvegesi e in genere una minoranza di nordici, a conferma del carattere internazionale della mostra, metà delle partecipanti donne. La pandemia ha costretto anche a ridurre il numero di lavori completamente nuovi, facendo lavorare i curatori alla ricontestualizzazione di opere anche risalenti agli anni ‘70 e ‘80, come i video della vietnamita americanizzata Trinh T. Minh-ha sulla vita rurale in Africa, a cavallo fra film e documentario. Due dei tre padiglioni esterni ospitano video, il medium più presente insieme alla fotografia, fra cui quello di Siri Hermansen, basata in Oslo, che discute l’impatto del nazismo sui famigliari eredi di quella esperienza on ‘Island of Memories’ del 2018.

Arte politica

Il colonialismo è uno dei temi più presenti, come nel lavoro ‘Ho l’obbligo di ricordare’ dell’angolano Delio Jasse, trapiantato a Milano e rappresentato dalla galleria londinese Tiwani Contemporary, serie di cartelli basati su una residenza dell’artista in Congo (DRC) nel 2019. Ci riguarda ancor più da vicino l’arazzo ‘Etiopia’ del 1935 della nordica Hannah Ryggen che condanna l’invasione fascista del paese e premonisce un Mussolini decapitato. Ma il premio per il lavoro ‘politico’ più esplicito va probabilmente al filippino Cian Dayrit con un arazzo tessile del 2019 che suggerisce che tutti i mali del mondo moderno abbiano origine nel capitalismo e nel ‘neoliberalismo’, confermando uno dei paradossi del mondo dell’arte contemporanea: curatori ed artisti di formazione anticapitalista e spesso comunista o post-marxista che fanno ‘prodotti’ comperati a caro prezzo da élite culturali ed economiche grazie alle quali si produce la ricchezza dei paesi (liberi ed occidentali) in cui si tengono le manifestazioni d’arte. Forse questa contraddizione è meno sentita in Norvegia, che grazie ai proventi petroliferi è, di fatto, uno dei pochi paesi socialisti rimasti in Europa.L’artista in ogni caso è rappresentato dalla berlinese Nome Gallery.

Identità e gender

In un mondo, soprattutto quello americano per ora, in cui la questione identitaria prende il centro dello scontro politico, non poteva mancare un nucleo di opere d’arte esplicitamente dedicate al tema. Una intera sala è dedicata alle recenti foto omoerotiche di Paul Mpagi Sepuya, afroamericano rappresentato dalla galleria newyorkese Yancey Richardson, mentre tre video installati dalla norvegese (di origini africane) Frida Orupabo (che lavora con la berlinese Galerie Nordenhake) e indagano l’intersezione fra genere e stereotipi coloniali. Di attualità politica anche il lavoro di Karol Radeziszewski, impegnato in un lavoro di documentazione della condizione delle identità di genere non binarie nell’Est Europa e, in particolare, nella sua conservatrice Polonia. Il lavoro esteticamente più interessante è il trittico di fotografie in bianco e nero ‘What did they actually see?’, autoritratti danzanti del colombiano Camilo Godoy rappresentato dalla galleria Dotfiftyone Momentum 11 rimane aperta fino al 10 ottobre.



Fonte: Il Sole 24 Ore