Se la criptovaluta viene acquistata da un prestanome, può esserci autoriciclaggio

Scatta l’autoriciclaggio anche per l’acquisto di bitcoin. Lo afferma la Cassazione con la sentenza 2868/2022 della Seconda sezione penale depositata ieri per effetto della quale resta confermato il sequestro di una cospicua somma di denaro riconducibile a un indagato per i reati presupposti di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. I profitti, secondo l’accusa, venivano poi trasferiti, attraverso bonifici effettuati da carte Postepay intestate a prestanome, a società estere attive nella compravendita di criptovalute, in particolare bitcoin.

La difesa aveva contestato la circostanza che le transazioni operate attraverso la criptovaluta bitcoin potessero essere ritenute anonime, visto che ogni movimentazione avvenuta in criptovaluta e registrata in una sorta di “libro contabile digitale” (distributed ledger) sarebbe di dominio pubblico, accessibile costantemente da chiunque e sarebbe sempre possibile risalire agli account delle parti dell’operazione trascritta attraverso blockchain.

Non c’è acquisto diretto di criptovalute, quindi il percorso non è tracciabile

La Cassazione, tuttavia, non è stata di questo parere e ha piuttosto valorizzato le modalità delle operazioni contestate. Non si trattava, infatti, di acquisto diretto di bitcoin da parte dell’indagato, ma di trasferimento attraverso bonifici in euro di somme di denaro a società estere successivamente incaricate di cambiare la valuta ricevuta in bitcoin.

«Ne consegue – osserva la sentenza – che il ricorrente non agiva in proprio nell’acquisto di tale ultima valuta cosiddetta “virtuale” , per ciò intendendosi, secondo la dizione contenuta nell’articolo 1, comma 2 , lettera qq) del decreto legislativo 231/2007, la rappresentazione digitale di valore non emessa nè garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente».

Società estere e prestanome all’inizio della catena

Le operazioni avvenivano attraverso società estere e utilizzando prestanome intestatari fittizi delle carte Postepay dalle quali partivano i bonifici. Tanto basta, avverte la Cassazione, per ritenere, in punta di diritto, che le operazioni realizzate con queste modalità costituivano un serio ostacolo all’identificazione del vero beneficiario finale delle transazioni ed effettivo titolare dei bitcoin, acquistati non da lui, ma da società estere che svolgevano il ruolo di «exchanger di criptovalute».

Fonte: Il Sole 24 Ore